Intervista di Francesco Anfossi, su Famiglia Cristiana 

Quando Luciano Corradini, classe 1935, si volta indietro e guarda alla storia della sua vita, tira un sospiro di sollievo, quasi incredulo, come quando da giovane superò indenne il baratro dell’arrampicata di terzo grado delle Cinque Torri, sulle Dolomiti. Il suo curriculum vitae, tra libri, insegnamento nei licei, responsabilità nel l’associazionismo e incarichi al ministero della Pubblica istruzione e all’università (tra cui la cattedra di Pedagogia che fu di Mauro Laeng, alla Sapienza), ha raggiunto picchi ragguardevoli, senza peraltro rubargli il tempo di badare alla sua cordata di figli (tre), generi (tre) e nipoti (dieci). Famiglia, scuola, università e società sono sempre stati i punti cardinali della sua vita. Qualche tempo fa, alla bella età di 73 anni, il professore si è deciso a pubblicare un diario lungo 30 anni, titolandolo A noi è andata bene (edizioni Città aperta, Troina, Enna 2008)), la testimonianza umile e appassionata di quante opere, avventure ed energie possano scaturire da un matrimonio felice, quello con Maria Bona Bonomelli, classe 1936.

– Tutto comincia con una lettera scritta a una figlia di tre mesi sulle pagine di un’agenda, da un padre di 26 anni che insegna storia e filosofia al liceo.

«Da allora non mi sono più fermato. È diventato un diario di 30 anni, dal 1961 al 1991: tre generazioni di allievi, le docenze, gli incarichi ministeriali, la vicepresidenza del Consiglio nazionale della Pubblica istruzione, il sottosegretariato nel Governo Dini...».
– E cinque traslochi...

«Reggio Emilia, Brescia, Milano, Roma, ancora Brescia. A Milano, quando ero all’Irrsae, ero vicino di casa di Roberto Vecchioni. Quando nacque suo figlio gli misi nella cassetta della posta un bigliettino. Diceva: “Caro prof, tanti auguri per il piccolo, che spero diventerà canterino come il papà, tranne di notte”. Non mi ha mai risposto».

– Quando scalò la Torre maggiore?

«Durante un campo scuola dell’Azione cattolica al Falzarego. C’era anche un giovane Gianni Vattimo. Eravamo tutti e due freschi di maturità: io avevo preso nove in filosofia, lui dieci».

– Del resto se non lo prendeva lui...

«Vattimo l’ho risentito ai tempi in cui ero sottosegretario. Gli scrissi
che avevo saputo da don Giannino Piana che recitava ancora il Rosario, anche se era presentato come miscredente. Io gli dissi che di fronte al silenzio di Dio qualche risposta l’avevo avuta. Lui mi rispose con un biglietto che conservo nel mio Pc. Aspetti, glielo leggo: “È vero, recito ancora il Rosario e l’Angelus tutti i giorni. Questa Chiesa a me piace poco, ma il Padreterno se ne viene fuori”».

– L’università la fece alla Cattolica.

«Sì, studiavo e alloggiavo nel collegio Agustinianum, dove divenni compagno di goliardate di Romano Prodi».


– I suoi anni ruggenti?

«Quelli a Reggio Emilia, negli anni del Concilio, di uomini straordinari come Giuseppe Dossetti».


– Esiste ancora l’Associazione per la riduzione del debito pubblico da lei fondata, che addirittura prevede contributi volontari all’Erario, per far capire che le tasse sono un dovere civico?

«Certo che esiste, abbiamo anche il sito. Io sono presidente emerito. Certo, ultimamente siamo un po’ diminuiti».


– Quanti siete come iscritti?

«Eravamo trecento, giovani e forti. Oggi siamo una cinquantina».


– I tempi non aiutano.  La più grossa soddisfazione da sottosegretario?

«Essermi impegnato per aggiornare l’educazione civica, che era stata introdotta dal ministro Aldo Moro nel ’58».

– Lei sta collaborando alla riforma Gelmini proprio su questi argomenti.

«La nuova disciplina si chiama Cittadinanza e Costituzione.  Dovrebbe entrare sperimentalmente in un campione di scuole di ogni ordine e grado il prossimo anno».


– Come conobbe il ministro Gelmini?  

«Me la ritrovai nella mia casa, a Brescia, un giorno. L’accompagnò sua sorella Cinzia, di cui ho un ricordo meraviglioso. Cinzia era compagna di scuola di mia figlia Laura. Diedi a entrambe lezioni quando si preparavano a passare dal liceo al magistrale. Mariastella mi disse a bruciapelo: “Professore lei mi dia pure torto, ma io ho bisogno del suo aiuto”. E, infatti, mi identifico con quel punto del decreto, meno con gli altri».

 – Che ne pensa del maestro unico?

«La letteratura pedagogica e l’esperienza prevalente in diversi Paesi dicono che è opportuno che sia unico fino in seconda elementare. Ma in terza, quarta e quinta è meglio che ci siano diverse figure».

– E delle classi ponte per stranieri?

«Se aiutano a integrare vanno bene. Ma non in classi separate, semmai in sessioni aggiuntive».

– La Gelmini sapeva che il ministro è coadiuvato da un organo che si chiama Consiglio nazionale della Pubblica istruzione (Cnpi)?

«Penso di sì, almeno spero, certo non lo ha valorizzato molto, almeno nei primi mesi. Ma ora vedo che ha superato le esitazioni iniziali».


– “Esitazioni” è un eufemismo. Proteste così non si vedevano dall’85...

«Comunque, come gli altri ministri ha fatto un corso accelerato. Ora vedo che sta avviando un dialogo a tutti i livelli, studenti compresi, e la situazione è più distesa. Con il rinvio dei decreti relativi alle superiori farà le necessarie consultazioni, anche con i forum delle associazioni di docenti e dirigenti».

– Come spiega la scelta del ministro di congelare la riforma delle superiori?

«Mi sembra un’operazione di buon- senso che prende atto della difficoltà di presentare alle famiglie nuovi ordinamenti senza il tempo necessario per metabolizzarli nel mondo della scuola».

– In questa scelta c’è la mano del ministro ombra del Pd Garavaglia?

«Direi proprio di sì».

– È vero che il ministro la considera un uomo di sinistra?

«Al Senato la Gelmini disse che si onorava di lavorare con un riformista di sinistra come Luciano Corradini. La definizione mi colpì molto, perché, vede, io mi sono iscritto al Pd, ma come vicepresidente del Cnpi ho lavorato con Misasi, Bianco, Dini, Mattarella, la Iervolino, Lombardi, D’Onofrio. È la mia area. Vede qualcosa di più al centro?».

– Solo il famoso birillo rosso del biliardo del bar del centro di Foligno...

«Ecco, io sono un moderato, di Centrosinistra, ma di sinistra proprio no. Semmai sono del Partito della scuola».

– Che ne pensa della politica scolastica di questo Governo?

«Bisogna distinguere l’aspetto economico da quello scolastico. Se c’è la necessità di contenere le spese, di avviare una sorta di economia di guerra, allora è giusto che tutti facciamo dei sacrifici. Ma perché, dico io, cominciare proprio dalla scuola?».


Intervista a Luciano Corradini:   “Quella volta in cui fuggii di fronte a Padre Gemelli”

Il valore transdisciplinare della scienza ha un suo autorevole testimone nel professor Luciano Corradini, classe 1935, insigne pedagogista, che l’11 ottobre 2021 ha ricevuto il premio per gli Studi socio-economici “Donato Menichella”, storico Governatore della Banca d’Italia dal 1946 al 1960.

Il legame che si può creare tra pedagogia ed economia lo fornisce un rapido esame del curriculum di Corradini. Professore emerito di Pedagogia generale e sociale nell’Università di Roma Tre, ha dedicato gran parte del suo impegno a studiare la dimensione pedagogica della Costituzione Italiana e ad esprimere un forte impegno per l’insegnamento dell’Educazione civica, in particolare nel corso degli anni Novanta, quando fu eletto vicepresidente del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e poi nominato sottosegretario nel Governo Dini. Quando nel 1992 il presidente del Consiglio Giuliano Amato varò una manovra straordinaria per contenere il debito pubblico, Corradini si sentì chiamato in causa come cittadino e iniziò l’esperienza del “volontariato fiscale”, versando al Tesoro il 10% del suo stipendio, per quindici mesi, per testimoniare la gravità di quel problema e il ruolo che in merito riteneva necessario che si adottasse su tutti i piani, in particolare sul piano educativo per contribuire ad affrontare le emergenze del Paese. Così con amici e colleghi fondò un’Associazione per la riduzione del debito pubblico (ARDeP), che dal 1993 si impegna su questo aspetto, in sinergia con le istituzioni, la società civile e il mondo dell’educazione, e ha contribuito alla redazione della legge 432/1993 affinché lo Stato possa ricevere donazioni dai cittadini.

La Fondazione Elio Greco Nuove Proposte, riconoscendo il ruolo svolto dal professor Corradini e dall’ARDeP per affrontare questi temi nella ricerca pedagogica, in dialogo con le istituzioni politiche ed economiche, gli ha assegnato il Premio “Donato Menichella”, giunto alla XX edizione e conferito a studiosi e istituzioni finanziarie impegnate nel proporre e realizzare progetti di crescita in Italia. La cerimonia si è svolta a Roma nel Centro Congressi Aurelia e ha visto la presenza del cardinal Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, che gli ha consegnato il diploma. Le basi dell’esperienza accademica di Luciano Corradini sono a Milano in Università Cattolica, e con lui ripercorriamo quegli anni che hanno lasciato una impronta indelebile nella sua vita.

Professore, il suo rapporto con l’Università Cattolica è iniziato esattamente 67 anni fa preparando il concorso per il posto gratuito al Collegio Augustinianum. Può andare con la memoria a quei mesi? 

«Durante l’estate del 1954, dopo la maturità, ho studiato i libri di monsignor Olgiati e di Sofia Vanni Rovighi, per prepararmi al concorso. Quando giunse il gran giorno, giunti a Milano, andammo, Giorgio Pastori (poi preside della Facoltà di Giurisprudenza per 23 anni) ed io, a fare una visita in Cappella, dove mi sentii “accolto” dal Sacro Cuore del Pogliaghi, che da allora non ha cessato di farmi compagnia. Dopo la prova scritta, in cui mi spremetti il cuore e il cervello, ci fu il colloquio. Facevano parte della commissione di concorso l’economista Mario Romani, e i filosofi Sofia Vanni Rovighi e don Italo Mancini. Il concorso andò bene, sia a me sia a Giorgio. Ebbi allora la comunicazione che mi avevano concesso un posto gratuito anche nel Collegio Borromeo di Pavia, ma io scelsi con entusiasmo il Collegio della Cattolica. L’idea di approfondire le ragioni della fede e di trovarmi in una comunità culturalmente stimolante, in continuità con l’ambiente formativo vissuto nell’Azione Cattolica, in particolare nei campi scuola del Falzarego (dove ebbi come guida Giovanni Prodi e Spartaco Marziani e come compagno Gianni Vattimo), mi parve un’opportunità straordinaria, che vissi come una grazia speciale. Non sapevo bene se iscrivermi a Lettere o a Filosofia. Fu l’allora direttore del Collegio, don Mario Giavazzi, incontrato proprio mentre stavo facendo la fila in segreteria per l’iscrizione, a darmi una spinta: “Fai quello che ti piace di più, non pensare adesso a sistemarti nella scuola”. Fu così che m’iscrissi a Filosofia e iniziai la vita dello studente “privilegiato”, anche per ragioni logistiche».

Così è iniziata anche l’avventura della permanenza in Augustinianum, non solo luogo di residenza ma di attività formative e culturali.

 «A molti di noi non bastava la comodità del luogo. Eravamo anzi arrivati con aspettative di una elevata qualità di vita intellettuale e sociale e anche con la voglia di farci degli amici. Cosa che poi è avvenuta, anche se con qualche difficoltà, per alcune forse inevitabili incomprensioni. Del resto direttore, direttore spirituale, rettore, con raduni e messe, discorsini ed esortazioni, ritiri spirituali e iniziative culturali, erano punti di riferimento e stimoli perché noi potessimo riconoscerci a vicenda come membri di una comunità in cui tener conto gli uni degli altri, e in cui aprirci a diverse forme di partecipazione ecclesiale, caritativa, culturale, politica, per dare allo studio delle nostre discipline uno sfondo comune di senso e d’impegno, pur nella varietà di vocazioni, che proprio negli anni del collegio dovevano precisarsi. C’era chi frequentava il teatro e chi, come il sottoscritto, andava ad ascoltare anche le lezioni di Banfi e di Dal Pra alla Statale, dove poi avrei insegnato per tredici anni».

In quegli anni c’erano figure educative importanti. 

«Si, il Collegio era caratterizzato da iniziative culturali, cogestite prima col direttore Giavazzi poi col direttore Umberto Pototschnig e col suo vice don Giulio Cattin, ch’era anche concertatore e direttore del coro. Il dialogo con queste figure adulte è stato importante per me. Ma lo è stato anche quello con i miei compagni di corso negli anni dal ’54 al ’58.
 La “leggenda agostina” racconta di una intensa quanto originale goliardia in quegli anni. Lei poi fu Pontifex Maximus nel 1957

«Gli stessi “anziani” collaboravano a loro modo con segnali “educativi”, organizzando la settimana dei ludi matriculares, “rito” giocoso e garbatamente dissacrante, con cui si cercava di conoscersi e di inserirsi tutti in un “mito” comune, quello di una vita intelligente e amichevole, critica e divertente, formativa, ma non bacchettona. La giocosità goliardica, che saccheggiava la cultura classica mescolandola con le vicende universitarie note agli anziani detentori dei segreti dell’istituzione, costringeva le matricole a scontrarsi, a sopportare, a riconoscere regole e gerarchie, anche le più buffe e strampalate, per scoprire quegli aspetti della vita collettiva e della personalità di persone che altrimenti se ne sarebbero state nascoste sotto la banalità del linguaggio quotidiano».

L’allegria si univa alla maggior conoscenza dei compagni di collegio

«Il “rito di passaggio” dei ludi, come quelli degli esami, delle bevute, delle cantate e delle suonate con l’armonica (“Il cacciatore nel bosco…”), servivano proprio per sciogliere le riserve e per immergere i nuovi arrivati in una sorta di fiume Giordano, in cui doveva crescere e rinnovarsi proprio l’agostinità, quello spirito e quel clima che, con parola dotta, possiamo definire la paideia dell’Augustinianum. Da pontefice Luciano I “emanai” l’enciclica Casti Pototschgnichi sub alta tirannide e, al termine dei ludi, “battezzai” con una caraffa d’acqua le matricole d’allora, fra cui Tiziano Treu e i due inseparabili Romano Prodi e Ugo Tori, che con i loro cognomi mi davano motivo d’insultare garbatamente le matricole. Mentre l’”ordinario castrense” don Pietro Nonis, poi vescovo di Vicenza, dotato di un paio di forbici al posto della croce pettorale, minacciava le matricole (“mea utar castrensi potestate”), e le benediceva con la formula “nubes, procellae, tempestates descendant super vos et maneant semper”».

Ma c’erano anche momenti di crescita e di confronto. 

«Ricordo le lunghe chiacchierate fatte dopo cena, magari dopo una passeggiata in via Moriggi e una cantata sotto le finestre del Marianum. Si raccontava, si discuteva, si cercava di scavare, là dove si annidano le speranze e le paure, dove si tenta di dare un volto, un significato, un’intenzionalità alle persone, ai compagni e ai professori, ma anche a tutte le figure importanti del Paese, a cominciare da quella ragazza là, con cui si era iniziato un discorso. Con la mia dura da più di sessant’anni. Come sarebbe stato il nostro futuro?».

Come considera quegli anni con il senno di oggi? 

«Se i sogni, i propositi e i progetti che si facevano, magari confidandosi con gli amici più vicini, erano come ipotesi da verificare o falsificare, ora siamo in grado di considerare la vita successiva a quegli anni come una sorta di esperimento, e di valutare quanto si è realizzato di quelle ipotesi. Ci siamo sparpagliati nelle professioni, in Italia e all’estero: c’è chi si è sposato e chi è diventato vescovo, chi ha molti figli e chi molti quattrini, chi insegna in una scuola media e chi governa l’Europa, chi ha conservato la fede, chi l’ha trovata e chi vive nel dubbio. Le vicende della vita possono aver lasciato, degli anni del collegio, una traccia visibile in alcuni, invisibile o addirittura rimossa e cancellata in altri. Per me si è trattato di un’esperienza di quelle che “imprimono il carattere”. Ho pubblicato un diario dal titolo “A noi è andata bene. Famiglia, scuola, università, società in un diario trentennale” (Città Aperta, Troina 2008). Sono fotogrammi che servono a documentare, fra l’altro, il “lascito dell’Augustinianum”».

E la vita oltre il collegio? 

«Frequentavamo abbastanza assiduamente le lezioni. Qualcuno di noi s’impegnava a fare le dispense dei corsi universitari. Si trattava di prendere appunti e di sistemarli “a caldo”, dopo ogni lezione, per offrirne poi il frutto agli studenti prima degli esami. Io m’impegnai per Storia romana e, negli anni successivi, per Storia medievale, Filosofia teoretica, Filosofia morale e Storia della filosofia medievale. Il sabato pomeriggio, molto spesso Evandro Agazzi ed io andavamo a portare ad alcune vecchine della periferia milanese i buoni acquisto della San Vincenzo. Al ritorno si passava da Piazza Duomo, dove abitava monsignor Olgiati, allora professore di Storia della filosofia, che s’interessava dei nostri studi e dei nostri percorsi di vita, chiamandoci “pinucci della Santa Infanzia”. Fra questi pinucci c’era anche Giovanni Reale, col quale nel 1956 facemmo due soggiorni estivi di studio in Germania, che io mi pagai coi proventi della produzione artigianale delle dispense (si andava a stampare nella Litografia Gozzadini, in via Santa Sofia). Ricordo anche che facevo parte del gruppo missionario, guidato prima da Giancarlo Brasca, poi da Giovanni Ancarani. E tre pomeriggi la settimana davo lezione a tre ragazzi di scuola media, sia “per arrotondare”, sia per imparare a parlare coi ragazzi, dato che mi preparavo all’insegnamento».

Nei suoi anni universitari era rettore padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica. 

«Fra i molti ricordi che si affollano alla mente, non posso dimenticare i mercoledì gemelliani. Dal collegio Augustinianum un buon gruppo di volenterosi, anche per l’incoraggiamento del direttore don Mario Giavazzi, andava nell’aula Manzoni, per ascoltare le conferenze che, per un certo periodo ogni mercoledì, il rettore Gemelli faceva per noi studenti. Ricordo che, in una di queste “passeggiate di trasferimento”, una volta che si arrivò in ritardo, ci imbattemmo proprio nel “Magnifico” che arrivava su una sedia a rotelle, spinta da un fedele bidello. Lo guardai con un misto di venerazione e di timore, perché lo sapevo nume tutelare e padre fondatore della nostra università, oltre che eponimo del collegio. A dir la verità, avevo visto anche una sua caricatura, sul “papiro” che gli anziani benignamente ci consegnavano al termine dei “ludi matriculares”, il 7 dicembre, per accoglierci nella Consorteria alma goliardica augustinianea, l’associazione di cui non era elegante citare la sigla in presenza delle “marianne”».

Quali temi trattava Gemelli in queste “conferenze del mercoledì”?

 «Sua Eccellenza (questo titolo gli spettava come presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) ci parlava da protagonista della vita universitaria, dandoci consigli e incoraggiamenti sul nostro “mestiere” di studenti, citando qualche episodio della sua attività di “defensor fidei”, impegnato su molti fronti della vita sociale e istituzionale. Tra l’altro fu membro e presidente di sezione del Consiglio superiore della pubblica istruzione, divenuto nel ’74 Consiglio nazionale della PI, che mi sarebbe poi capitato di presiedere, dal 1989 al 1997. Mi è restata impressa una sua frase, riferita in particolare alla sua verve di polemista su riviste e giornali: ”Io sto molto attento e, quando ci vuole, pesto!”. Il gesto della mano gli procurò un applauso fragoroso. Del resto, lo si applaudiva spesso, talora con qualche esagerazione giovanile, quasi per liberarsi dal peso della sua grandezza e della sua autorevolezza».

Ma non a tutti era simpatico padre Gemelli.

 «La sua polemica con tutta la cultura moderna, in nome del Medioevo cristiano, faceva dire a Gustavo Bontadini, l’indimenticabile teoreta della Cattolica, che Gemelli aveva scarsa disposizione al dialogo, alla dialettica e alla mediazione. La più mite ma non meno lucida Sofia Vanni Rovighi notava che le forti personalità come la sua hanno, insieme a grandi qualità, anche grandi difetti. Non sapeva che a Leonardo Ancona, suo successore alla cattedra di psicologia, che, per mitigare il suo maschilismo, gli citava l’intelligenza della Vanni, Gemelli rispose, tra il serio e il faceto: “Lei non è una donna, ma un uomo: vorrei studiare il suo sistema endocrino!”».

Ha qualche ricordo più personale di padre Gemelli? 

«La cosa che ricordo più volentieri del grande Gemelli è la frase manoscritta posta sotto l’immagine di Gesù del Poliaghi, che dopo la discussione della tesi si consegnava ad ogni laureato della Cattolica, e che io ho appeso vicino alla mia scrivania: “Ricordando il giorno della tua laurea, ricorda pure che l’Alma Mater, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, alla quale hai appartenuto, ti ha insegnato come nella vita, nella professione e negli studi devi servire il Regno di Cristo Signore nostro. Il tuo Rettore, fra Agostino Gemelli ofm “. Questo Regno non è di questo mondo, ma comincia di qua».

Ma una volta lei è fuggito davanti al Padre. 

«Si, ero “fagiolo”, camminavo al piano delle aule, con una mano appoggiata sulla spalla di quella compagna di corso che sarebbe poi divenuta nonna dei nostri dieci nipoti e cinque pronipoti. Improvvisamente sbucò da un angolo del corridoio la carrozzella del Padre. Ci guardò da lontano, alzò il bastone con cui di solito si aiutava a compiere quei pochi passi che i postumi del trauma gli consentivano, e ci disse con voce imperiosa: “Voi due!”. Ci guardammo sgomenti e svicolammo giù per le scale, per timore, chissà, di dovere rendere conto di una confidenza forse da lui ritenuta sconveniente. Può anche darsi che ci volesse semplicemente parlare da professore e da padre. Ma in noi prevalse il timore e probabilmente perdemmo l’occasione storica di parlare con lui».

Un’occasione persa che forse solo la nomina ad “Agostino dell’anno” 2006 ha potuto compensare in Luciano Corradini e in sua moglie Bona.

                                                                                                                        Agostino Picicco


 Intervista di Daniele Novara a Luciano Corradini per la rivista Marcondiro (1998)

Premessa. Il testo che segue è lungo, ma ha una sua giustificazione perché fa i conti con una problematica non semplice e perché presenta non solo, una sorta di scheda storica dei progetti di cui si parla, ma giudica la situazione attuale e presenta in sintesi pratica il contenuto della recente direttiva ministeriale sull’argomento. (D.N.)

 

D. Il Progetto Giovani 2000, il Progetto Ragazzi 2000, il Progetto Genitori, il progetto C.I.C. sono tutte iniziative nate e cresciute anche dalla Sua spinta e determinazione. Che bilancio possiamo trarne a quasi 10 anni dal loro inizio? 

R. Ho fatto quasi un anno fa un quadro storico critico, documentato e un po’ vivace su questa problematica. Mi permetto di citarlo, per coloro che avessero curiosità e tempo da dedicare al mondo dell’educazione e dei giovani, al di là di quello che può comparire in un’intervista. Il titolo è Educazione alla salute, La Scuola, Brescia 1997: l’ho scritto con Piero Cattaneo, che con me e con tanti altri è stato impegnato in prima linea nella ideazione e nella realizzazione dei progetti del Ministero. Comincio col ricordare che il Progetto Giovani è nato nell’ambito di una linea di politica ministeriale che da 20 anni oscilla fra centralità e marginalità (C’è una circolare Scalfaro del 25-1-1973 su “La lotta contro la diffusione delle tossicomanie”), che è stata lanciata prima della legge per l’educazione alla salute (1990) e che le date che l’hanno caratterizzato (PG93, PG2000) sono state tutte pensate al futuro: un futuro storico-politico-civile, legato a traguardi importanti per la costruzione dell’Europa. Il Progetto Giovani 1993/2000, nato nel 1989 e rilanciato negli anni successivi, è un'iniziativa di durata pluriennale, promossa e monitorata dal Ministero della PI allo scopo di aiutare le scuole secondarie superiori ad affrontare in ambito scolastico alcuni nodi centrali la problematica educativa posta dalla società contemporanea. Esso ha inteso in particolare offrire ai giovani “l'opportunità di essere promotori di analisi e protagonisti d'interventi, al fine di migliorare la qualità della vita scolastica, con particolare riferimento allo sviluppo del proprio equilibrio psicofisico e sociale, e   di promuovere su questa base un'immagine reale e positiva dei giovani, al di là della cultura dell'emergenza, assecondando il loro impegno culturale e civile, nel quadro delle finalità formative della scuola”. Lanciato e sostenuto da una serie di circolari ministeriali, che riprendono e sviluppano un'iniziativa del Ministro Falcucci, risalente al 1985, a cominciare dal “giro di boa” del Convegno di Fiuggi del 1989 (si vedano le CCMM Galloni 15-7-1989, n.246; Mattarella 27-4-1990, n.114; Bianco 30-11-1990, n.327; Misasi 2-8-1991, n.241; Misasi 20-2-1992, n. 47; Jervolino 22-12-1992, n.362; Jervolino 20-2-1994 n.120; Lombardi, 8-2-1995, n. 45; Lombardi 11-10-1995 n.325; Berlinguer, 23-9-1996 n.600), il PG 93, poi divenuto PG 2000, capostipite dei progetti Ragazzi 2000 (a partire dalla CM 240/1991 per le elementari e le medie), Genitori (a partire dalla CM47/1992), Arcobaleno (partire dalla CM 120/1994 per le materne), impegna tutta l'Amministrazione della PI e invita tutte le scuole a favorire un ripensamento dei fini, dei contenuti e degli ambiti operativi della scuola, alla luce di due nuclei problematici e valoriali, che vengono proposti come polarità di risignificazione e di riorganizzazione della vita scolastica: essi sono la salute e lo sviluppo, o, in altri termini, l'identità personale  e la solidarietà mondiale. In senso generale l'iniziativa intende offrire una pista per avvicinare la scuola alla cultura del nostro tempo e alla vita: il punto di vista con cui si tenta questa operazione è quello di una lettura integrata della problematica giovanile e della problematica epocale che il nostro Paese deve affrontare, in un contesto nazionale, europeo e mondiale. La presa di coscienza delle differenti forme di disagio personale e sociale non dovrebbe essere disgiunta dalle iniziative degli studenti volte ad identificare e in qualche modo a mobilitare le risorse utili a venirne a capo. E' a questo scopo che s'invitano gli organi collegiali e i singoli docenti a ripensare il curricolo scolastico e a concordare con gli studenti i contenuti e i modi delle assemblee e delle attività integrative alla luce di questi concetti e a favorire su questa base il sorgere di autonome iniziative capaci di promuovere fra i giovani un protagonismo creativo e responsabile, che sia espressione di una presa di coscienza generazionale e preludio di una nuova cittadinanza, da viversi a partire dalla scuola. Per aiutare ed orientare l'esercizio di simili funzioni sono previsti: 1) enunciati propositivi e problematici, che hanno guidato la ricerca di ciascuno degli anni che hanno preceduto il '93, appuntamento simbolo della integrazione europea (Gli slogan sono: star bene con se stessi, in un mondo che stia meglio; star bene con gli altri, nella propria cultura, in dialogo con le altre culture; star bene nelle istituzioni, in un'Europa che conduca verso il mondo); 2) una serie di incontri seminariali e di convegni a livello d'istituto, eventualmente di distretto, di regione, di nazione, con una conclusione a livello europeo, in dialogo con tutte le autorità ritenute significative per affrontare in modo pertinente e corretto i problemi individuati e approfonditi; 3) gruppi di lavoro, a livello nazionale e provinciale, per alimentare e organizzare le iniziative, in collaborazione con le più significative forze dell'extrascuola, pubbliche e private. La triennalità, più o meno strutturata, dopo la prima “mitica” (l’aggettivo è dei ragazzi che l’hanno vissuta) esperienza del 90-93, è stata riproposta fino al 2000. Una legge dello Stato, la cosiddetta Jervolino-Vassalli, ( legge 162/1990, integrata con la 685/1975 nel DPR 9-10-90 n.309 e poi inserita nel TU 16-4-1994 n.297, art. 326), che affida al Ministero della PI il compito di coordinare e promuovere attività di educazione alla salute nelle scuole di ogni ordine e grado, ha previsto l'erogazione di non trascurabili risorse economiche per questo obiettivo generale. Il Ministero ha evidenziato le valenze preventive del P.G. 93/200, del Progetto Ragazzi 2000, del Progetto Genitori, considerandoli come concreta modalità di perseguimento delle finalità previste dalla legge (a cominciare, come s’è ricordato, dalle CM 20-2-92, n.47 e CM 22-12-1992, n. 362). Le risorse economiche servono non solo a finanziare le singole iniziative, ma anche a rendere possibile la lenta costruzione di quel capitale umano, che ora si muove in gran parte sul piano del volontariato e che dovrà essere sempre più considerato risorsa strategica per lo sviluppo di una scuola serena e produttiva, sul piano dell'efficacia formativa e dell'efficienza del servizio Alludo in particolare alla figura dei cosiddetti referenti per l'educazione alla salute, uno o due per ogni scuola, e cioè circa 15.000 docenti che hanno seguito corsi specifici per affrontare il tema dell'educazione alla salute e dei connessi progetti. Essi dovrebbero essere compresi tra le cosiddette “nuove figure professionali”. Si deve notare che le circolari citate sono in qualche modo interattive, perché il gruppo di lavoro nazionale che ha per anni monitorato presso l’Ufficio Studi il processo attivato, ha consentito di mettere a punto le norme e i suggerimenti, utilizzando nel testo delle circolari i deliberati degli studenti, votati in convegni regionali o nazionali, da quelli della 1° Conferenza nazionale Studenti PG 93 del febbraio 1993 a quelli della 1° Conferenza europea di Strasburgo dell’ottobre 1994 a quelli del Seminario nazionale di Roma del giugno 1995, sul tema “I giovani nella stampa e la stampa dei giovani”, che ha chiesto e ottenuto la produzione, poi attuata con stampa e spedizione ai rappresentanti degli studenti di ogni classe, a cura del Poligrafico, a totale carico finanziario del Provveditorato generale dello Stato, di Studenti &C., mensile del Ministero della PI per i giovani e viceversa. Fin dalle prime iniziative si erano sottolineate le interconnessioni fra la lotta contro la droga e quella contro l’insuccesso scolastico (la “dispersione”), e la sinergia, ma anche il possibile corto circuito fra le cosiddette educazioni e le discipline scolastiche. E’ in queste circolari che si è lanciato il PEI, progetto educativo d’istituto, come luogo di sintesi fra il curricolo cognitivo e il curricolo creativo. La riflessione più attenta e organica che abbiamo potuto fare in proposito, per quanto mi riguarda, a conclusione dei sette anni trascorsi a Viale Trastevere, ha trovato una formulazione sufficientemente ampia e argomentata nella direttiva 8-2-1996 n. 58, firmata da Lombardi e mandata da Berlinguer alle scuole, che presenta il documento Nuove dimensioni formative, educazione civica e cultura costituzionale. Su questa base un comitato ministeriale ha steso un curricolo continuo, dalla materia alla media superiore. Ne fornisce documentazione e approfondimento un libro uscito in questi giorni presso il Mulino di Bologna, dal titolo Educazione civica e cultura costituzionale. La via italiana alla cittadinanza europea, che ho curato, col collega Refrigeri. E’ dovuta a Berlinguer anche la direttiva 600/1996, che prevede un sobrio quadro operativo per alimentare i progetti per l’educazione alla salute. Ma il clima psicologico e culturale, prima che giuridico, è mutato. La direttiva 133, divenuta poi DPR 567/1996 sulle iniziative complementari e integrative, finanziate in modo autonomo, la “Carta dei servizi scolastici” (DPCM 7-6-1995), di cui poco ora si parla, le nuove norme sull’autonomia (legge Bassanini 59/97 e regolamenti in arrivo, anticipati dal DM 765/97 sulla sperimentazione dell’autonomia) la direttiva sull’orientamento degli studenti (dir. 6-8-1997 n.487) lo statuto delle studentesse e degli studenti (DPR 24-6-1998, n.249), forniscono un panorama di riferimento che potrebbe dare all’educazione alla salute e ai connessi progetti una nuova legittimazione e nuove strumentazioni operative e finanziarie. Questo non succede però come potrebbe. La metodologia dei progetti giovani e ragazzi prevede lo sviluppo del protagonismo dei giovani nell'analisi del disagio, nella sua trasformazione in problema, nel passaggio al progetto e all'azione e successivamente alla valutazione, alla domanda consapevole e alla proposta. E' un itinerario che molti gruppi di giovani hanno seguito con rigore e con fantasia, aiutati da un esercito di circa trentamila docenti referenti per l'educazione alla salute, che hanno svolto volontariamente, con modesti premi incentivanti, un lavoro difficile e delicato. Lo slogan che gli studenti hanno inventato nella Conferenza nazionale e che hanno cantato a ritmo di rap è "essere scuola, non esserci solo dentro".(1) E' forse la miglior traduzione del tema ufficiale del terzo dei temi proposti dal Ministero, che è per tutte le scuole, come ho ricordato, "star bene nelle istituzioni, in un'Europa che conduca verso il mondo". Fin dal 1989 si parlò nella CM Galloni di un viaggio simbolico (ma anche reale) verso se stessi, verso gli altri e verso le istituzioni, alternativo ai "viaggi chimici" che producono una lenta autodistruzione. In particolare la CM 362/1992 ha presentato un quadro organico di proposte e di finanziamenti per affrontare iniziative integrative, non sostitutive di quanto si può e si deve fare nelle ordinarie attività curricolari. Qualcuno sottolinea solo le difficoltà, che ci sono e che vanno identificate e superate per quanto possibile, in questo contesto finanziario difficilissimo. Altri sanno coniugare la realtà e la razionalità, il calcolo e la fantasia. Ne escono interessanti "fucilate di senso", che stupiscono e ricaricano: ."PG, facce sognà" hanno scritto i ragazzi di Pordenone. "Non abbiamo strutture, usiamo la testa", hanno scritto i ragazzi di Agrigento.

D. Da due anni questi progetti non vengono più rifinanziati. Come mai? Può essere che l’Amministrazione Berlinguer sia poco sensibile agli aspetti formativi della scuola? 

R. Io non mi nascondo le difficoltà della scuola, in un’epoca di profonda trasformazione, e degli insegnanti, che sono spesso disorientati su ciò che si può e si deve fare. La tentazione di prendersela con l’educazione è forte. Chi privilegia l’istruzione pensa a procedure rigorose, efficaci ed efficienti, limitate a ciò che è intersoggettivamente controllabile. Pensando all’educazione molti immaginano tempi e modi arbitrari, costosi sul piano psicologico e poco redditizi, spesso paravento per non fare neppure quel minimo che il mercato mostra di apprezzare. E’ comprensibile che costoro ne abbiano paura e si mettano ad ironizzare sulle venticinque “educazioni” che hanno avuto l’onore di qualche circolare. Sicché la tentazione di rinviare, di spostare l’attenzione su altro è forte. Le parole d’ordine che giungono da qualche anno al Ministero e che la stampa amplifica, sono l’informatica, l’inglese, la lotta contro la dispersione scolastica. Questo è in cima alla modernizzazione del sistema. I “mali” e i “beni” si guardano con sospetto, per timore di conflitti e di moralismi. Per questo a Viale Trastevere si parla sempre meno di educazione. La parola formazione è più neutra, più accettabile nel gergo sindacal - confindustriale: se ne parla in termini di offerta, che sono termini di mercato. Al posto del PEI abbiamo il POF: piano dell’offerta formativa. Se il “cliente” non “compra”, possiamo stare ugualmente tranquilli. Se gli studenti protestano, si tratta con i gruppi organizzati su alcune concessioni e sui finanziamenti dati senza troppi vincoli di destinazione e con discreta larghezza. Lo “Statuto degli studenti” è una indubbia conquista storica, ma rivela in alcuni punti anche il pericoloso arretramento di un’autorità responsabile e responsabilizzante. E gli adulti non sono incentivati a condividere percorsi e progetti con i giovani. Si privilegiano le lezioni frontali e le iniziative spontanee di studenti, che gestiscono talora consistenti somme, senza render conto di fatto a nessuno. Che ne sarà dei docenti referenti per l’educazione alla salute che, quando sono stati scelti e aiutati bene, hanno dimostrato la possibilità di diventare figure polivalenti preziose per l’educazione scolastica? Fra “saperi” e “educazioni” si rischia di dimenticare lo sforzo di sintesi per l’educazione e per il sapere, che non sono separabili. Il problema è quello di riconoscere dignità concettuale, consistenza e continuità amministrativa ai fini educativi, che ogni tanto ricompaiono anche nel linguaggio più asettico, almeno come antidoti ai guai che ci affliggono, ma che poi restano emarginati nella prassi prevalente. Tutto il linguaggio metaforico e simbolico dell’educazione sta arretrando: al posto delle elementari, delle medie e dei licei, abbiamo due “cicli”, al posto della maturità, gli “esami di stato conclusivi”, al posto dei progetti Giovani e Ragazzi 2000, il cui marchio si è accreditato in anni di impegno, in Italia e all’estero, troviamo un anonimo “programma studentesse e studenti”. Il problema della salute e dei giovani non è morto, anche se non si può dire che goda di …ottima salute. Se ne parla in una recente direttiva n. 463 del 26 novembre 1998, che riprende l’intera problematica per l’educazione alla salute e per il protagonismo giovanile, con i relativi finanziamenti, ma non presenta alcun titolo, oltre il numero d’identificazione. Le idee di fondo sono rilanciate, in modo sobrio, riprese dalla direttiva 600: “Considerato che la risposta ai bisogni della persona in formazione richiede che vengano raccordati gli interventi di prevenzione del disagio e dell’insuccesso scolastico con quelli della promozione della salute e del benessere, anche con riferimento all’uso e abuso di farmaci e dei cosiddetti integratori dietetici; considerato che la predetta finalità richiede il miglioramento complessivo della qualità dell’offerta formativa e una integrazione delle risorse e degli interventi sul territorio promossi da Regioni, Enti locali, soggetti pubblici e privati, associazioni ivi comprese quelle del volontariato…”. Nella presentazione dei programmi delle attività (il citato “studentesse e studenti”, “Centri d’informazione e consulenza”, “Famiglia”, “Programma formazione operatori scolastici” “Monitoraggio delle attività realizzate nella scuola” “Indagine sulle aree metropolitane per costruire mappe del disagio giovanile” “Ricerca sullo stato di attuazione delle educazioni”) si dice con chiarezza che “Al Ministero spetta l’indicazione delle linee essenziali e dei criteri guida, mentre alle scuole compete la traduzione di tali linee in progetto educativo e didattico (il PEI qui riemerge dal POF, ndr), adeguato alle esigenze locali e alle risorse disponibili, condiviso con altri soggetti significativi, istituzionali e del privato sociale, presenti sul territorio”. Di fatto le linee essenziali e i criteri guida sono indicati in modo assai sintetico, mentre tutto il processo attuativo, che nel comitato tecnico scientifico dovrebbe trovare un centro di elaborazione e di sostegno alla realizzazione di iniziative, viene per così dire sfumato. Di detto comitato si è solo “sentito il parere”. I legami con le consulte provinciali studentesche sono appena intravisti. Al posto di Studenti &C, chiuso nel 1996 dopo mesi di apnea, si sostiene, con 50 milioni, “Studenti on line”, sito internet del Ministero, che svolge qualche attività con e per i giovani. Sono previste risorse per i programmi indicati: per il primo (“studentesse e studenti”) quasi 8 miliardi, per i CIC quasi 5, per le iniziative riservate ai familiari dei bambini e degli adolescenti che frequentano le scuole poco più di 2 miliardi (non più di 8 milioni per corso), quasi 2 miliardi per corsi di formazione e sostegno per dirigenti, docenti, ATA delle scuole di ogni ordine e grado sui problemi della formazione, della prevenzione, della comunicazione. I tempi per la progettazione sono stretti: i provveditori trasmetteranno al Ministero, Ispettorato Educazione fisica e sportiva- Coordinamento e gestione delle attività per gli studenti, “entro tre mesi dalla disponibilità delle risorse assegnate, l’elenco delle scuole di ogni ordine e grado e i rispettivi finanziamenti accordati, nonché i criteri di valutazione che hanno informato le scelte del Comitato tecnico provinciale”. Insomma si rispetta la legge, con riferimenti essenziali di ordine valoriale e amministrativo. Lo si fa, se mi è consentito, in tono minore, senza troppo impegno, quasi pensando ad altro. Non ho mai sentito il ministro Berlinguer citare l’educazione alla salute, men che meno il Progetto Giovani, neanche per memoria storica. Evidentemente non ne ha una grande opinione. E’ curioso che frattanto il Times informi che gli esperti inglesi consigliano al Governo britannico d’introdurre nella scuola di ogni ordine e grado una nuova materia che si potrebbe chiamare “preparazione alla vita adulta”: si tratta, dicono, di “un mix di educazione alla salute, alla cittadinanza, all’ambiente, alla spiritualità”. Noi l’abbiamo chiamata “educazione civica e cultura costituzionale”. Aggiungo un’ultima osservazione. Non v’è cenno, nella pur pregevole direttiva ministeriale, alle iniziative della Camera, che da due anni invita i giovani per una sessione straordinaria, chiedendo loro anche di fare proposte di legge. L’appuntamento di aprile, adeguatamente preparato nell’ambito delle Consulte provinciali, potrebbe fornire elevata legittimazione e forza propulsiva ad un difficile lavoro che rischia di ricadere su se stesso, se non finalizzato e sostenuto. 

D. Forse è anche la formazione degli insegnanti che necessita di competenze socio-relazionali invece che di pure e semplici cognizioni nell’ambito della propria materia. Cosa ne pensa? Si apre qualche nuova prospettiva in proposito? 

R: Ho già implicitamente riconosciuto che la questione dei fini, del senso, della “tastiera di comando” della scuola dipende dalle conoscenze e dalle abilità dei docenti: e cioè dalle loro convinzioni, dall’investimento di energia che dedicano a questo o quest’altro obiettivo e dalla facilità con cui intrattengono relazioni con i ragazzi e con i colleghi. Tutto questo è connesso anche col clima culturale e con la mentalità diffusa. Ciò che si scrive nelle leggi, ciò che pensano il Ministro in carica e i funzionari è indubbiamente importante, ma non è decisivo, se non c’è, nella coscienza dei singoli e in almeno in qualche consistente gruppo d’insegnanti, nelle singole città e nelle singole scuole, una “massa critica” sufficiente a decidere orientamenti e comportamenti coerenti con certe idee e con certe norme. A Milano si è tenuto di recente un seminario nazionale dal titolo: Intelligenza emotiva e scuola. E’ una riflessione non solo attuale, ma anche “redditizia”, in termini di rafforzamento della professionalità dei docenti. Io ho avuto modo di occuparmi di questa problematica nell’ambito di un progetto Erasmus, con colleghi europei, che si occupano dell’Affective Education. Dopo alcuni anni di lavoro è uscito un libro, che ho curato presso l’editore SEAM di Roma (1998),a dal titolo La dimensione affettiva nella scuola e nella formazione dei docenti. Mi fermo qua. La relativa calma natalizia mi ha consentito di rispondere in modo forse troppo lungo, ma affettivamente caldo alle domande del mio ex alunno della Statale di Milano, al quale faccio i migliori auguri, per l’educazione alla pace e per Marcondiro.         Luciano Corradini

 

 

Intervista al prof. Luciano Corradini, neosottosegretario alla Pubblica Istruzione

(gennaio 1995)

D. Dalle impressioni raccolte qua e là, si direbbe che la nuova compagine ministeriale sia stata accolta con favore dal mondo della scuola. Come si sente nei panni del sottosegretario? 

R. I sentimenti sono forse immaginabili: stupore, gioia, gratitudine per chi mi ha dato fiducia, mostrando stima per quello che ho fatto finora e per la scuola che rappresento nel CNPI; ma anche senso di responsabilità e timore di non essere all'altezza delle attese di un mondo tanto ricco e complesso come quello della scuola, da molto tempo inquieto e insoddisfatto, scosso di recente da speranze, lotte, delusioni.  

D. C'è anche un particolare risvolto politico nella sua nomina, come in quella di tutti i membri dell'attuale Governo: il fatto cioè che siate stati chiamati in quanto tecnici, per un compito limitato, nel mezzo di una lunga polemica sulla data delle prossime elezioni. Lei ha assistito dai banchi del governo al dibattito parlamentare. Che impressione ne ha ricevuto? 

R. Il dibattito non è stato sempre edificante. Il presidente del Consiglio Dini è stato sobrio e puntuale nel presentare il suo programma, secondo il mandato ricevuto da Capo dello Stato. Ha detto anche, nella replica alla Camera, che non si può pensare solo ai quattro punti fondamentali del programma (manovra finanziaria bis, nuove norme sulle pensioni, nuovi criteri elettorali regionali e cosiddetta par condicio nella campagna elettorale), ma che non si deve dimenticare anche tutto quello che serve al Paese in un periodo, non importa quanto lungo, in cui comunque i bisogni e le istituzioni democratiche non vanno in vacanza. E se si parla di educazione e di scuola, ha detto in sostanza, non si può non pensare in grande e a prospettive lungo respiro, qualunque sia il tempo concesso al Governo. La chiave di questo tempo, in rapporto alle cose che davvero vuole, ce l'ha in mano il Parlamento. 

D. Siamo allora al cosiddetto governo di tregua preelettorale? 

R. Se mi è consentito scherzare un poco, ma non troppo, su questa vicenda insieme seria e tragicomica, vorrei citare un passo del 1° Canto dell'Orlando Furioso, dove si parla del duello fra Rinaldo e Ferraù. Scesi dai rispettivi cavalli, i due cavalieri se le davano di santa ragione, benché Angelica, sperato premio di tanta fatica, approfittando del trambusto, si fosse allontanata su uno dei due cavalli. "Poi che s'affaticar gran pezzo invano", nota il poeta, Rinaldo ebbe un'idea luminosa e chiese al rivale: "di farmi qui tardar che guadagno hai? / Ché quando ancor tu m'abbi morto o preso, / non però tua la bella donna fia, / che, mentre noi tardiam, se ne va via". Vicenda non molto diversa tocca alla nostra lira, che, come Angelica, se ne sta scappando "al bosco e alla campagna". Il ragionamento di Rinaldo convince il Saracino: "Al pagan la proposta non dispiacque: così fu differita la tenzone; e tal tregua tra di lor subito nacque, sì l'odio e l'ira va in oblivione, che 'l pagano al partir da le fresche acque non lasciò a piedi il buon figliol d'Amone; con preghi invita, et alfin toglie in groppa e per l'orme d'Angelica galoppa". Commenta l'Ariosto: "Oh gran bontà de' cavalieri antiqui! eran rivali, eran di fè diversi, e si sentian degli aspri colpi iniqui per tutta la persona anco dolersi; e pur per selve oscure e calli obliqui insieme van senza sospetto aversi." Che dire dei cavalieri moderni? Certo sarebbe stato meglio se, comprendendo la circostanza, ci fosse stato un voto favorevole di tutti i contendenti. Ma questo sembra non sia concesso dall'asprezza dei tempi.Il Governo tecnico rappresenta il cavallo superstite, che dovrebbe riacciuffare Angelica e quel tanto di garbo, di fiducia e di ragionevolezza che sembrano allontanarsi a gran velocità, sul cavallo della lira timorosa e fuggiasca. Se duellare democraticamente si deve, almeno questo avvenga per la guida di un Paese ancora bello e amabile, non imbruttito dai debiti e dalle risse. Il Rapporto sull'Italia dell'EURISPES 1995 rivela che un italiano su quattro sarebbe disposto ad abbandonare il Paese, perché ammorbato dal clima politico, desideroso di vivere tranquillo e di assicurare ai figli un avvenire migliore. 

D. La metafora è suggestiva, ma anche un po' malinconica. Mentre il Governo Dini cerca di salvare la lira, che cosa pensate di fare per la scuola? 

R. Prima di tutto il contratto, che manca da troppo tempo dalla vita della scuola. Gli insegnanti sono la principale risorsa dell'istituzione scolastica: una loro mortificazione, oltre che ingiusta sarebbe dannosa per il servizio che devono rendere al Paese, e prima di tutto agli studenti e alle famiglie. Il ministro Lombardi ha già fissato un incontro col ministro Treu per procedere presto e bene in questa delicatissima materia. Qui mi permetto di fare una considerazione di ordine generale.

Poiché le risorse economiche, anche ripartite con intelligenza, sono comunque inferiori alle pur legittime aspettative dei docenti, bisognerà fare uno sforzo di informazione e di presa di coscienza della situazione complessiva in cui si trova il Paese. Non per accettare passivamente una fatale povertà, ma per rendersi conto della dinamica che ha prodotto il nostro debito pubblico, il pericolo che rappresenta e i guasti che produce. Ricordo che il sistema scolastico costa annualmente circa 45.000 miliardi, mentre il debito, che continua a crescere di 450 miliardi al giorno, costa circa 170.000 miliardi sotto forma di interessi sui titoli di stato, sottoscritti in gran parte dai cittadini italiani.  

D. Questo significa che il debito schiaccia la scuola. 

R. Non solo: se fossero destinati all'economia produttiva, all'istruzione, all'aiuto a chi ne ha veramente bisogno, tutti questi soldi renderebbero prospero un paese come il nostro, che invece si caratterizza più per la gestione del debito e dei relativi sacrifici che per il razionale impiego delle risorse che produce e che potrebbe produrre. Il tema è economico, ma anche e soprattutto etico, culturale, civico, civile, politico e pedagogico. Non basta sperare di cavarsela. Bisogna trovare soluzioni e organizzare le coscienze e le risorse.

In parlamento e con i colleghi di governo non parlo solo di scuola, ma anche della possibilità di affrontare concretamente il problema del debito, che è la ragione principale di questo Governo, ma che non potrà essere risolto che da un impegno generalizzato e di lunga lena, attento al dialogo fra le generazioni. Ricordo la campagna dell'ARDeP: "Adottiamo l'Italia". Non si può ridurre il debito, se non si aumenta la fiducia in se stessi e negli altri e la determinazione a lottare contro gli egoismi, le evasioni, gli sprechi.

Occorre perciò che aumenti il numero di quegli italiani che non si sentono su una nave che sta per naufragare e si portano a casa i quadri appesi alle pareti, ma si sentono azionisti di una spedizione che inizia col contributo di molti. Chi può e sa di più, ha più doveri degli altri, ma anche più motivi per fare volentieri, e con fierezza, quello che altri, visto l'andazzo, riterrebbero stupidità o follia. 

D. Torniamo alla politica scolastica. Il ministro D'Onofrio ha sollevato una gran quantità di problemi, portando quasi ogni giorno la scuola in prima pagina. Come intende porsi nei riguardi di questa eredità? 

R. Ho seguito con simpatia, ma anche con trepidazione il "ciclone D'Onofrio": ho ammirato il suo coraggio, la sua grande capacità di lavoro e di elaborazione, la linea di sostanziale continuità che ha scelto nell'impostare un programma che pareva dovesse avere un respiro di legislatura. Le cose sono andate come sappiamo e sul campo si sono lasciati più abbozzi e schizzi che disegni e opere finite. Tocca al ministro Lombardi scegliere la linea da seguire, i modi e i toni del suo lavoro. Sulla base delle opinioni che finora abbiamo scambiato con lui, la collega Serravalle ed io, direi che intendiamo abbassare il tono della voce e procedere con molta prudenza, sapendo che le diecisioni circa alcune delle principali problematiche sollevate da D'Onofrio sono in Parlamento e da questo potranno essere risolte, tanto più facilmente se terremo con tutte le forze politiche là rappresentate un dialogo concreto e rispettoso.  

D. Sui corsi sostitutivi degli esami di riparazione la scuola superiore sembra più perplessa e in difficoltà che soddisfatta. 

R. Comunque non mi sembra sensato tornare indietro, come qualcuno suggerisce. Ho condiviso le intenzioni di D'Onofrio, su questo punto, ma gli ho anche detto che sarebbe stato meglio far precedere a questa innovazione, attesa dagli studenti e dalle famiglie da almeno vent'anni, l'attuazione della delega dell'art. 4 della 537/93 sull'autonomia scolastica, sulla riforma dell'Amministrazione, degli organi collegiali, degli IRRSAE e sui diritti e i doveri degli studenti. Diverso è infatti regolamentare una materia così delicata nell'ambito di una struttura rigida, con questo stato giuridico e con queste risorse, e affidare l'iniziativa a scuole dotate di maggior flessibilità e capaci di assumersi in proposito maggiori responsabilità.  

D. La delega sull'autonomia è caduta nel settembre scorso. D'Onofrio ha dichiarato che è stato un bene. Che cosa farete in proposito?  

R. Non credo che D'Onofrio abbia deliberatamente affossato l'autonomia: ha sperato, con un ottimismo in dosi industriali, di ottenere una proroga e di procedere a un coinvolgimento dei docenti e degli studenti, con cui si potesse iniziare in grande stile una nuova stagione per la scuola italiana. Il disegno, ora interrotto, non è da buttare, ma da ripensare nei tempi, nelle modalità, nelle implicazioni. Del resto neppure D'Onofrio ha buttato a mare le idee che sono maturate negli ultimi trent'anni e che hanno trovato una sintesi complessivamente equilibrata nella Conferenza nazionale sulla scuola del 1990. Spero vivamante che possiamo avviare al più presto su questo punto il dialogo col Parlamento, anche in considerazione del fatto che il ministro mi ha dato la delega sugli organi collegiali della scuola e sulle problematiche relative agli studenti. 

D. Non sperate di fare voi quello che altri non è riuscito a fare? 

R. Proprio perché abbiamo poco tempo, credo che dovremo guardare alla scuola più nella prospettiva della storia che in quella della cronaca. Il parlamento e il ministro che metteranno la firma alle norme sull'autonomia e sulla riforma della secondaria saranno solo gli ultimi di una lunga catena d'impegno e di lavoro, di delusioni e di paziente tessitura che partono dai tempi di Gonella e di Gui e di tutti coloro che hanno pensato e lottato in questi anni nelle associazioni, nei sindacati, nelle commissioni, nei partiti, nell'Amministrazione, nel Parlamento. Proprio perché tecnici non protagonisti, temporaneamente prestati all'attività di Governo, vorremmo lavorare per dare senso e prospettive a tanta fatica, a beneficio, inutile dirlo, della scuola, della società e dei nostri nipoti, dato che i figli hanno per lo più dovuto accontentarsi della scuola superiore degli anni '20, sia pure con lodevoli eccezioni sperimentali.  

D. Ha parlato di una delega sulle problematiche studentesche. Allude al Progetto giovani 2000? 

R. Sì, e più in generale ai progetti speciali relativi all' educazione alla salute, alla legalità, alla sicurezza stradale, alla lotta contro la dispersione scolastica, agli interventi a favore degli handicappati. Ho chiesto alla Presidenza del Consiglio che acceleri l'emanazione di una circolare che preveda l'attribuzione dei fondi previsti dalla legge contro le tossicodipendenze, per il biennio 94-95, dato che per lo scorso anno il problema è stato dimenticato. Il collega Ossicini mi ha assicurato un immediato interessamento al problema. Su questa base potremo convocare il Comitato scientifico-tecnico previsto dalla legge 309/1990 presso il nostro Ministero e formulare un pacchetto di progetti quadro, che, una volta accolti dalla Presidenza, consentiranno ai provveditorati di attivare i loro comitati e alle scuole di ogni ordine e grado di concorrere al finanziamento di loro progetti.

E' alla firma del Ministro una circolare che riformula e rilancia tutta questa materia, e che invia ai provveditori e loro tramite alle scuole, i documenti votati dagli studenti delegati alla Conferenza di Strasburgo, dai docenti referenti per l'educazione alla salute riuniti a Bellaria, dagli esperti (e dagli studenti) dei ministeri dell'istruzione e della sanità dei paesi dell'UE riuniti a Roma sulle problematiche dell'educazione in rapporto all'AIDS.

Vorrei approfittare di questa intervista per mandare ai docenti referenti, a tutti i docenti impegnati nella lotta contro il disagio e per una scuola accogliente ed efficiente, e agli studenti presenti a Roma nella Conferenza del febbraio 93 e a Strasburgo nella Conferenza dell'ottobre 94, un cordiale saluto e l'assicurazione dell'impegno del Ministro e dell'Amministrazione per approfondire, consolidare e migliorare le esperienze condotte in questi anni all'insegna dello "star bene in un mondo che stia meglio". 

D. Contratto, autonomia, con tutto quello che conteneva la delega, e riforma della secondaria, problemi giovanili. C'è dell'altro nella sua agenda? 

R. I problemi che attendono e gli interlocutori che chiedono interventi e che offrono collaborazione, sono veramente molti. Non si deve sottovalutare e mortificare nulla e nessuno, ma la necessità di scegliere s'impone. Vorrei dedicare tempo a studiare soprattutto le questioni che possono fare un concreto passo avanti o fors' anche tagliare il traguardo entro tempi ragionevoli. Penso in primis alla formazione universitaria dei docenti e al corso di laurea per insegnanti di scuola primaria e dell'infanzia.

La legge 341, che è del 1990, prevede l'attivazione di corsi di specializzazione all'insegnamento per tutti i laureati che scelgono la scuola e l'istituzione del citato corso di laurea. La problematica è complessa e tocca soggetti, punti di vista, istituzioni, interessi, risorse molteplici. Bisogna accelerare i tempi d'interlocuzione, scegliere le vie più praticabili, anche con la necessaria gradualità, ma decidersi ad avviare il processo. Ho in mente Mario Mencarelli e il lavoro pionieristico compiuto dalle commissioni da lui presiedute e il lavoro appassionato e puntiglioso di Mario Gattullo, il cui ricordo è ancora vivissimo in queste scale di Viale Trastevere, che abbiamo salite e scese più volte insieme, alla ricerca di carte che facessero fare qualche passo avanti nell'ambito della formazione universitaria dei docenti. Non è accettabile che il nostro paese abbia tanta paura di sbagliare, di faticare e di spendere da risultare impresentabile agli altri paesi europei. Nell'ottobre del '91 ho passato una mattina a presentare ai colleghi dell'IUFM (Institut universitaire de formation des maitres) di Rennes la legge italiana. Hanno espresso in proposito giudizi molto favorevoli. Purtroppo però siamo ancora fermi al palo, anche se molti, a cominciare dai colleghi della SIPeD, dell'ASPei e dalle associazioni professionali dei docenti chiedono che non si perda altro tempo. Nel CNPI abbiamo affrontato il problema con una commissione apposita. Attendiamo il parere del CUN. Il nuovo ministro dell'Università Salvini ha un orientamento favorevole a risolvere positivamente il problema. Insomma si può sperare. E dato che si parla di confronti europei, non si può non ricordare, al di là di polemiche contingenti, che in diverse sedi ha fatto strada un punto di vista che riconosce non solo alle scuole istituite dallo stato, ma anche ad altre istituzioni educative, il carattere di servizio pubblico, a certe condizioni che dovrebbero essere stabilite dalla legge, nel rispetto della Costituzione, che prevede espressamente un legge sulla parità scolastica. Detto questo vorrei aggiungere che su tutto quello che non appare facilmente risolvibile, bisogna certo pensare e prepararsi, per non lasciarsi sfuggire eventuali occasioni favorevoli, ma è bene non parlare molto, per non allargare troppo il fronte delle attese e per non scivolare su qualche buccia di frutto esotico, che non manca mai vicino ai palazzi romani. 

D. Che cosa succederà in Consiglio nazionale della PI con la Sua nomina a sottosegretario? 

R. Con la fiducia al Governo sono tenuto a chiedere l'aspettativa dall'insegnamento universitario, per la durata del mandato; opportunità vuole che dia anche le dimissioni dalla vice presidenza del CNPI. Certo è stata una circostanza eccezionale quella che ha portato al governo due membri del parlamentino della scuola. Ethel Serravalle ed io siamo stati festeggiati dai colleghi, veramente lieti di questa avventura, che hanno avvertito come occasione di dialogo più intenso fra amministrazione consultiva e amministrazione attiva. Per questo non è parso necessario che noi ci dimettessimo, oltre che dall'Ufficio di presidenza, anche dal CNPI. Il problema della nostra sostituzione sarà posto dal Consiglio nei prossimi giorni.

 

4) Intervista di ADNKRONOS 1995

         QUALI LE RIFORME FATTE DAL PARLAMENTO IN QUESTO ANNO DI GOVERNO "TECNICO"?

 

Finisce l'anno e il presidente Dini salirà probabilmente al Quirinale per rassegnare le dimissioni del Governo. Nulla è dato oggi sapere dopo il tormento quotidiano delle elezioni anticipate sì o no, se finirà anche la legislatura e con ciò l'attività di questo Parlamento, o se l'attività potrà continuare durante il semestre di presidenza italiana.

Per la scuola il bottino delle innovazioni legislative è davvero magro: la cosa più rilevante è la trasformazione in legge del decreto D'Onofrio che sostituisce gli esami di riparazione nelle secondarie superiori con le IDEI, ossia le iniziative didattico educative integrative, per organizzare le quali si è riconosciuta alle scuole una certa dose di autonomia e di risorse economiche. La legge di riforma della secondaria superiore e dell'innalzamento dell'obbligo è ferma in Commissione al Senato. Qui si è data la precedenza al disegno di legge delega sull'autonomia, sulla riorganizzazione della struttura amministrativa della scuola, degli organi collegiali, degli IRRSAE e sulla carta dei diritti e doveri degli studenti. Ma anche questa rilevante materia è stata fermata, per dar la precedenza alla finanziaria e al bilancio dello Stato, in particolare per ciò che riguarda la Pubblica Istruzione. Sto seguendo alla Camera quest'ultima vicenda, mentre va crescendo il numero delle manifestazioni studentesche, delle autogestioni e delle occupazioni, che intenderebbero difendere la scuola statale da un attacco sconsiderato del Governo e della maggioranza dei senatori, che intenderebbero privatizzarla.

 Che cosa c'è di vero in questi timori e in queste denunce?

 Che ci siano stati dei tagli è vero, ma questo dipende dalla cosiddetta razionalizzazione della rete scolastica, frutto della continua diminuzione del numero degli alunni. Il ministro Lombardi ha ottenuto deal Governo che almeno una parte delle economie così fatte sia reimpiegata nella scuola per l'innovazione, per la formazione dei docenti in servizio ed eventualmente anche per integrare, alle scuole non statali materne ed elementari parificate, quel contributo che una legge di risparmio dello scorso anno aveva tagliato, mettendo un certo numero di scuole a rischio di chiusura. Per avere un'idea di questa somma, che secondo certe voci non si sa quanto informate e illuminate provocherebbe la distruzione della scuola di stato e il tradimento del costituzionale "senza oneri per lo stato", basti pensare che si tratta di una quindicina di miliardi, in un bilancio che prevede per la scuola 59.000 miliardi. Se un certo numero di scuole non statali chiuderà, lo stato dovrà spendere il triplo per accogliere i bambini che vorranno iscriversi nelle sue scuole. Il "senza oneri" va visto in modo ragionevole, con l'attenzione a tutto il quadro della società e al bilancio reale, più che alle rigidezze ideologiche. 

Gli studenti chiedono anche l'abolizione del voto di condotta, il diritto allo sciopero senza la giustificazione dei genitori, il raddoppio del numero dei loro rappresentanti in consiglio d'istituto. 

Sì, queste cose e altre ancora, per fortuna più ragionevoli di quelle che ha citato. Temono di non essere presi in considerazione e vogliono "subito" fare una nuova scuola. Bisogna dire che in parte lo potrebbero, se si considerassero a tutti gli effetti scuola, come dice un loro slogan ("essere scuola non esserci solo dentro"), e non una controparte in lotta. Il Ministero li ha presi in considerazione da tempo. Posso citare tre convegni nazionali svolti nei due anni scorsi. Personalmente ho parlato in tre occasioni ufficiali su invito dell'Unione degli studenti e li ho ascoltati al Ministero, col ministro Lombardi. Si è parlato anche di legalità, di diritto allo studio, di edilizia scolastica, di lotta al malgoverno, di libere attività creative, di iniziative di solidarietà per la Bosnia. Le autorità di governo sono disponibili a collaborare con gli studenti per tutti gli obiettivi positivi a cui sono tenute dalle norme vigenti, dalla loro coscienza e talora anche dalla loro simpatia per una generazione di ragazzi, che cercano di capirre qualcosa di questo mondo difficile e di cambiare le mentalità, le abitudini e le istituzioni.

Purtroppo sembra che, per riempire le piazze e per avere il consenso delle folle, ricorrano a vecchie polemiche globalistiche contro il governo, ma di fatto anche contro i loro compagni che vogliono far scuola, contro le leggi e contro il denaro pubblico, perché l'occupazione e la rinuncia a far scuola comporta questi prezzi altissimi da pagare.

 Che cosa dovrebbero fare questi giovani per farsi ascoltare senza ricorrere alle occupazioni?

 Purtroppo è vero che sui giornali non si va se non s'infrange qualche regola o se non si è cantautori o premi Nobel. La gente sembra più disposta a vedere i giovani sgambettare in TV piuttosto che ascoltarli. Occorre una strategia complessa e paziente, che valorizzi le possibilità locali di espressione-comunicazione, a partire dalle assemblee, che sono spesso poco preparate e sciupate. Poi ci sono i giornali d'istituto. Il Ministero ne ha identificati milletrecento in tutta Itialia. E su richiesta dei ragazzi presenti a Roma nel convegno "I giovani nella stampa e la stampa dei giovani" è riuscito a "mettere in onda" un mensile di 64 pagine, dal titolo Studenti &C., "mensile del MPI per i giovani e viceversa", che serve per informare, per discutere, per farsi ascoltare da una platea estesa quanto la scuola secondaria superiore italiana. I giovani vi partecipano sia sul piano redazionale, sia come autori. Il Poligrafico dello Stato, che lo stampa per conto del Provveditorato generale dello Stato, ne manda due copie per classe, ai due studenti rappresentanti di classe, invitandoli a far circolare le pubblicazioni anche fra gli altri studenti, i docenti e i genitori. Ci si può anche abbonare, alla modica somma di 25.000 lire, per 8 numeri, mandando un cc postale all'Istituto Poligrafico dello Stato, Piazza Verdi 10, 00198 Roma, al n.387001, indicando la causale del versamento. Abbiamo presentato la rivista alla stampa e alla TV, che le hanno dedicato un po' di spazio. E quanto ai temi, possono scegliere fra tutto quello che va e quello che non va, quello che sentono e quello che pensano, quello che fanno e quello che vogliono, nell'ambito di una cultura giovanile che è parte indisgiungibile dalla cultura generale, nelle sue espressioni più alte e più comuni. Ricordo in particolare il Progetto Giovani 2000, il Progetto Ragazzi 2000, il Progetto Genitori e, per le scuole materne, il Progetto Arcobaleno. Sono in arrivo, per il 96 e il 97, per facilitare la loro attuazione, i contributi finanziari previsti dalla legge 162/1990. E per le scuole secondarie superiori ci sono i CIC, centri d'informazione e consulenza, alla cui gestione possono contribuire studenti e genitori. 

In questi giorni nelle scuole si discute di Carta dei servizi scolastici. Di che cosa si tratta? 

La "Carta dei servizi scolastici" (G.U. n. 138, serie generale, del 15-6-1995), che dev'essere adottata e pubblicizzata da ogni istituto entro quest'anno scolastico, sulla base dello schema generale di riferimento pubblicato nella citata Gazzetta Ufficiale, precisa che la "scuola garantisce l'elaborazione, l'adozione e la pubblicizzazione" del PEI, del regolamento d'istituto, della programmazione educativa, della programmazione didattica, del contratto formativo. Vediamo di che cosa si tratta, secondo questa norma, che ha valore di legge. Il PEI "contiene le scelte educative ed organizzative e i criteri di utilizzazione delle risorse e costituisce un impegno per l'intera comunità scolastica". Il "regolamento d'istituto  comprende, oltre alla logistica della scuola, "le modalità di comunicazione con studenti e genitori, con riferimento ad incontri con i docenti, di mattina e di pomeriggio (prefissati e/o per appuntamento); le modalità di convocazione e di svolgimento delle assemblee di classe, organizzate dalla scuola o richieste da studenti e genitori, del comitato degli studenti e dei genitori, dei consigli d'intersezione, d'interclasse o di classe e del consiglio di circolo o d'istituto". La programmazione educativa, elaborata dal collegio dei docenti, progetta i percorsi formativi correlati agli obiettivi e alle finalità delineati nei programmi...Sulla base dei criteri espressi dal consiglio di circolo o d'istituto, elabora le attività riguardanti l'orientamento, la formazione integrata, i corsi di ricupero, gli interventi di sostegno." La programmazione didattica, elaborata e approvata dal consiglio di intersezione, di interclasse o di classe, delinea il percorso formativo della classe e del singolo alunno, adeguando ad essi gli interventi operativi. Il contratto formativo è la dichiarazione, esplicita e partecipata, dell'operato della scuola. Esso si stabilisce, in particolare, fra il docente e l'allievo, ma coinvolge l'intero consiglio d'interclasse e di classe e la classe, gli organi dell'istituto, i genitori, gli enti esterni preposti o interessati a servizio scolastico". Non si tratta di novità assolute per la scuola, ma l'elaborazione e la pubblicizzazione dei documenti relativi a queste vere e proprie "carte d'identità della scuola" chiamano in causa in modo evidente la dirigenza, la professionalità, in una parola la personalità di ogni scuola, nella prospettiva indicata dalla legge delega sull'autonomia, di cui sono vere e proprie parziali anticipazioni. Questa personalità non dipende solo dalle leggi e dai soldi.


 

Intervista al mensile "Frontiere", sul tema della scuola (20-1-1996)

 

D. Prof. Luciano Corradini, si parla tanto, e su più fronti, del problema scuola. Si ha però l'impressione che si tratti di una discussione fine a se stessa, che non approfondisce e non migliora le cose. Da pedagogista membro di un governo tecnico, che idea si è fatto dei mali che affliggono la scuola e quali responsabilità ne ha individuato? 

R. La domanda evoca la metafora dantesca della città "somigliante a quella inferma che non può trovar posa in su le piume, ma con dar volta suo dolore scherma". In effetti e' vero che molto spesso si discute senza curarsi di fare diagnosi complete e di considerare gli strumenti a disposizione per promuovere terapie adeguate, facendosi carico degli effetti che queste potrebbero avere. Noto subito che già in medicina è difficile diagnosticare certe malattie che riguardano non questo o quell'organo, ma tutto l'organismo, quando sia affetto da sindromi vaghe o addirittura contraddittorie e con interazioni complesse, o quando manchino gli strumenti per intervenire. In politica e nell'amministrazione non sono pochi quelli che, dopo qualche tentativo, si convincono che governare è, secondo due classiche battute, non solo impossibile, ma inutile. Io vorrei resistere alle tentazioni opposte delle diagnosi facili e della rinuncia a pensare, a tentare e a scegliere, dando solo agli altri, a questa o a quella struttura o al sistema ogni responsabilità dovuta alle mancate scelte o alle scelte sbagliate, che non guariscono la malattia, ma fanno sorgere nuove patologie. Comincerei perciò a distinguere: a) i mali denunciati dai mass media e dalle persone che riescono a farsi sentire (penso ai sindacati, agli studenti organizzati, alle occupazioni, alle manifestazioni); b) i mali avvertiti dalle persone che vivono con diversi ruoli e in diverse situazioni l'esperienza scolastica (da quelli segnalati dai giovani diplomati e laureati che non trovano posto nella scuola, agli studenti che sopportano talora situazioni incredibili, alle vicende kafkiane di molti docenti presi nella morsa della razionalizzazione); c) i mali diagnosticati da coloro che hanno diversi poteri di decidere, dal bidello al preside, dall'assessore al direttore generale, dal ministro al parlamentare di questo o quell'orientamento. Io appartengo pro tempore alla terza categoria di soggetti: cerco di ascoltare coloro che presentano gli altri punti di vista sui mali scolastici, sforzandosi di rispondere al maggior numero possibile di richieste, anche con l'aiuto di una segreteria disponibile ed efficiente, di tener conto di tutte le istanze, distinguendo però le cose urgenti dalle cose importanti, che non sono sempre quelle che più fanno notizia. L'immagine che viene dai mass media è press'a poco questa: all'inizio è il disagio, di ciascuno e di tutti. La scuola è il luogo del disagio. Questo è frutto della protervia o dell'incapacità o dell'incuria di chi ci ha governato, perché ha fatto scelte sbagliate, in un senso o nell'altro, o non ha fatto nulla, per ignavia o spirito di parte. I diversi ministri, facendo lo slalom fra i giornalisti e le lettere ai giornali, ma anche sedendo al governo e in parlamento e incontrando migliaia di persone, più o meno rappresentative, in diverse sedi, identificano colpe e carenze e promettono politiche organiche, relative alle strutture, alle risorse economiche, alle riforme, alla buona amministrazione. Riescono di solito a fare un decimo di quello che promettono e vorrebbero fare, anche perché le leggi le fa il Parlamento, le risorse deve trovarle per lo più Fisco e Tesoro, e in pochi mesi di governo non si riesce quasi mai a concordare linee e tempi definiti circa i provvedimenti da varare. Questo poco però produce immediatamente i suoi effetti, che molti giornalisti descrivono così: il caos; talora l'inarrestabile degrado. Basti pensare alla riforma della scuola elementare, ai corsi di sostegno e ricupero, alle schede di valutazione, ai pochi miliardi ipotizzati e poi stanziati nella finanziaria per le scuole non statali materne ed elementari. Ricordo il giorno in cui vennero tolte da mano ignota le lapidi che intitolavano un piazza di Palermo a Falcone e Borsellino. I giornali ne parlarono in prima pagina e nulla dissero, con l'eccezione di Avvenire, del fatto che trecento giovani, rappresentanti eletti di tutte le province italiane, per iniziativa del Ministero, quel giorno partivano da Milano con 8 pullmann, per presentare a Strasburgo alle autorità europee il frutto del pluriennale Progetto Giovani 93 e per chiedere un forum europeo sul tema dei diritti e doveri degli studenti. La solita foresta che cresce, che fa meno rumore dell'albero che cade. Dal disagio al caos, dunque, in virtù o meglio per colpa delle istituzioni. Se a decidere non è il ministro, ma il parlamento (talora accade anche questo), il quadro non cambia molto. E se i politici non riescono a mettersi d'accordo e fanno governare i tecnici, il caos dipende dai tecnici, come prima dipendeva dai politici. Morale: via gli usurpatori, e la scuola e la società andranno meglio. Così dicono alcuni in pubblico, confessando in privato che sperano che duri il governo dei tecnici. Naturalmente esagero un poco, ma non troppo. L'itinerario che ha suggerito la CM Mattarella (n.114 del 1990) nell'ambito del Progetto giovani credo che dovrebbe valere per tutti i soggetti del sistema, qualunque sia in esso la propria posizione. Eccone i passaggi fondamentali: 1) dal disagio al problema o ai problemi ; 2) dal problema all'azione; 3) dall'azione alla valutazione; 4) dalla valutazione alla domanda, alla proposta, all'impegno. Ciascuno di noi non è solo portatore di bisogno e non è solo portatore di potere. Io non cesso, finché dura il mio servizio al governo, d'essere un insegnante, un cittadino che rivendica diritti e soffre per carenze molteplici, così come il docente e lo studente di qualunque scuola dispongono di un certo grado di potere di analisi, di azione, di proposta, di protesta, di indicazione, di risoluzione di certi problemi. Conosco ragazzi che hanno fatto più di molti adulti operanti (si fa per dire) ai diversi livelli del sistema. 

D. Torniamo ai mali della scuola . Da che cosa dipendono? 

R. Ricordo ancora le essenziali e un po' sbrigative diagnosi di Dante sui mali della sua Firenze: "la gente nova e i sùbiti guadagni..." e "superbia, invidia, avarizia son le faville che hanno i cuori accesi". Di fatto gli ostacoli sono di natura economica, sociologica, giuridica, politica, culturale, psicologica, morale. Riguardano la complessità dei problemi, la scarsezza e la farraginosità degli strumenti, ma anche l'inadeguatezza delle persone, dal punto di vista intellettuale e morale. Dato che debbo scegliere, dirò quello che mi pare il male più pernicioso e pervasivo: l'aria della scuola, o meglio di molte scuole, è ammorbata da scarsa conoscenza, da scarsa fiducia, da cattiva comunicazione, da distorta destinazione delle proprie risorse personali e collettive. C'è insomma spreco, rumore, dispersione di energia: il carbone del disagio annerisce e inquina più che bruciare per produrre forza di cambiamento e lavoro. Di solito si pensa che il male più grave sia riconducibile alla scarsezza delle risorse economiche. Il che in un certo senso è vero, ma non basta limitarsi a denunciarlo, non comprendendo i meccanismi e non sapendo indicare attraverso quali strade concrete si possa procurare più risorse alla scuola, e per fare che cosa. Del resto c'è anche lo scandalo di fondi stanziati e non spesi, dagli enti locali e dalle scuole stesse. La scarsità dei mezzi disponibili dipende soprattutto da una circostanza che solitamente si rimuove, anche con l'aiuto di giornalisti demagoghi, che vedono solo il risvolto per cui il fisco è un tiranno che ruba nelle tasche dei privati e non anche quello per cui occorre ridurre il peso del debito pubblico, che è un male comune, ma che molti pensano sia una questione che riguarda esclusivamente il Tesoro e la Banca d'Italia. Siamo un paese di "stangati" e di "tartassati", il che è anche vero: ma perché non dire che siamo anche un paese di gente che lavora, che risparmia, che crede nella semina e non solo nel raccolto, e che tenta di ridurre anche con salari bassi e pagando le tasse il debito pericoloso e indecente che minaccia di impedirci l'ingresso in Europa? 

D. Lei si è occupato del problema, tanto da avere fondato l'Associazione per la riduzione del debito pubblico (ARDeP). Che cosa possiamo farci, con le poche risorse che hanno gli insegnanti, e senza dover studiare l'alta finanza? 

R. Il debito di oltre due milioni di miliardi dipende dal fatto che il nostro paese è in complesso, soprattutto negli anni 80, vissuto al di sopra delle sue possibilità economiche e al di sotto delle sue possibilità di razionale governo della cosa pubblica: per cui ora si trova a dover spendere più della metà dei redditi da fisco non per servizi ai cittadini, ma per il cosiddetto servizio del debito, ossia per interessi sui titoli di stato, a causa dei prestiti crescenti, con cui finanzia la sua attività ordinaria. Questi interessi annui costano più di tre volte quanto ci costa l'intero sistema scolastico. E' come se lo Stato, il maggior responsabile delle risorse e delle spese relative al "pubblico" del nostro paese, avesse un polmone solo; ed è come se noi adulti mandassimo a figli e nipoti gran parte del conto delle nostre spese, sperando che in futuro "se la cavino". Volgiamo difendere le conquiste essenziali dello stato sociale? Bisogna pagarle, riducendo altre spese e aumentando le entrate, non emettendo cambiali in scadenza per i posteri, come ricordano Monti da Bruxelles e Modigliani dagli USA. In termini metaforici: come cittadini siamo ammalati e stiamo affrontando una terapia dura (per alcuni tecnici ancora troppo debole), che dovrebbe evitare il collasso del sistema-paese: stiamo attraversando un periodo di delicato "risanamento" della finanza pubblica, in cui sono possibili ricadute rovinose. Se questi anni di gestione difficoltosa (e a rischio) della finanza pubblica daranno i risultati sperati, potremo abbassare i tassi, ridurre il debito, entrare in Europa col pieno possesso dei frutti del nostro lavoro. Se no, restano le vie del dissesto economico, sociale e civile. Il dolore c'è: diverso è però il suo significato se noi pensiamo che sia dovuto ai rantoli della morte o alla lotta per la guarigione; se noi pensiamo che ci siano in giro untori che diffondono un male misterioso, o persone che cercano di rendere l'aria più respirabile, con buona volontà e competenza. A volte temo che, in mancanza di grandi miti, di ideologie mobilitanti e di poteri forti, si diffondano vissuti globalistici di tipo depressivo/aggressivo, che inducono a gettare la spugna, a disperare e a squalificare questo e quello, colpevolizzando senza approfondire, piuttosto che condurre analisi serie e prudenti, capaci di valorizzare gli spazi e i poteri, più o meno grandi, di cui di fatto ciascuno dispone per "sortirne insieme". L'ARDeP propone lo slogan Adottiamo l'Italia

D. Lei è un pedagogista, ma un anno di esperienza parlamentare dai banchi del Governo Le ha consentito di farsi qualche idea su come vanno le cose in politica. Vuole tentare una riflessione su questi temi, sia pure nella prospettiva di un governo tecnico? 

R. Faccio qualche esempio di tipo politico. In Senato c'era il tempo per concludere la delega al Governo su autonomia, riforma dell'Amministrazione, nuova partecipazione, servizio nazionale di valutazione, statuto degli studenti, nuovo disegno per IRRSAE, CEDE, BDP. All'inizio, in primavera, una pregiudiziale di Rifondazione comunista ha negato la legislativa alla Commissione cultura del Senato; a gennaio una pregiudiziale della Lega, appoggiata dal Centro-destra, ha deciso di sospendere l'esame del testo, in attesa del chiarimento politico in sede parlamentare. Molte sono le ragioni per non fare: il timore di avvantaggiare gli altri, di fare una cosa non perfetta, che possa poi essere rimproverata dai propri elettori, il timore di dare una mano a un "sistema" (aleggia ancora questo fantasma sessantottesco, col nome di 'prima Repubblica'), di non compiacere questa o quella categoria. Di fatto la stessa società che denuncia l'immobilismo appare molto spesso divisa, su qualunque cosa, fra favorevoli e contrari, con gradimenti che mutano come gli umori, sicché, per tornare a Dante e alla sua Fiorenza, "non giunge a mezzo novembre quel che tu d'ottobre fili".  C'era, per fare un altro esempio, la possibilità di delegare il Governo a intervenire sugli esami di maturità, per mutarne la formula, sulla base di un disegno legge di razionalizzazione Dini-Frattini. Lo si è negato, perché il problema è delicato, riguarda anche le scuole non statali e perché il compito in questa materia dev'essere riservato al Parlamento. Ineccepibile. Solo che il tempo manca e si rinvia alla prossima legislatura, come quando doveva scegliersi un albero per essere impiccato. Salvo rifare la solita campagna giornalistica contro una formula che è del 1969 e forse una nuova campagna elettorale, in cui si dice che è intollerabile questo e quello e che si farà subito questo e quest'altro. San Filippo Neri a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se avesse saputo che sarebbe morto di lì a un'ora, rispose che avrebbe continuato a giocare. E' questione di fede intrinseca in quello che si fa; ma è chiaro che gli scenari cambiano e che uno non è mai sicuro di quello che succederà se cambieranno le cose. Alcuni miei amici non si sono sposati, in attesa di chiarire le cose, per prudenza. Io frattanto ho tre figli e sei nipoti. Ma le leggi non sono figli: per farle, non basta il consenso di due persone. Terzo argomento "politicissimo", e quindi tabù per un Governo tecnico, che invece, interrogato, tenta di rispondere col buon senso. Il presidente della Repubblica è ritenuto politicamente responsabile dello stallo in cui si trova il Parlamento e alcune forze politiche, non solo quelle che inneggiano alla distribuzione gratuita della droga ai ragazzi, in Piazza Navona, da parte di un babbo Natale vestito di giallo, ma anche quelle che difendono l'unità della nazione e il senso dello stato, chiedono la messa in stato d'accusa del Presidente, con raccolta di firme, per abuso dei suoi poteri costituzionali. Io leggo la cosa in questo modo: due sposi non riescono a stare insieme, i figli ne soffrono, il giudice non si limita a fare il notaio, ma cerca di capire e di suggerire in vario modo la ripresa del dialogo fra chi ha i titoli costituzionali per decidere. E viene accusato di abuso di poteri, di suggerire soluzioni, di "mettere il dito fra moglie e marito", ossia di fare il "semipresidenzialista" in un paese che, guarda caso, si salverebbe dal parlamentarismo col presidenzialismo. La stessa sorte tocca al presidente del Consiglio tecnico: deve governare, non solo perché il Paese non va in vacanza ma ha compiti ineludibili da affrontare ogni giorno, tra cui l'ingresso nello SME e le manovre per entrare nell'Europa di Maastricht, ma anche per permettere, fra l'altro, al Parlamento di darsi nuove regole, per ridare fiato alla politica, e cioè a forze capaci di evitare l'impasse in cui sono finite attualmente, sulla base del vigente sistema elettorale. Eppure lo si accusa di fellonia e di usurpazione, perché non lascia tutto in mezzo al guado, ma discute, presenta risultati e problemi, affidando la decisione al Parlamento. Quando questo decide che è ora che lasci per davvero, lascia. Ma se il Parlamento lo richiama, è pronto a tornare. E' sete di potere o segno di responsabilità? Ho rispetto per gli strateghi che sanno sacrificare il bene al meglio di domani. Ma quando uno vede il male di oggi e l'incerto bene di domani, qualche dubbio può averlo. Penso alla legge ponte di Misasi, che cadde per un voto, il 7 aprile 1971, in nome di una riforma più radicale, che non si è fatta. Quante occasioni si perdono, in nome di un sole che non spunterà mai all'orizzonte? 

D. Ritiene giusto che a scuola si discuta di politica? Se ne discute troppo o troppo poco? 

R. Complessivamente credo troppo poco, con prospettive spesso di corto respiro e senza un impegno ideale e organizzativo utile a dare un contenuto interessante e educativo alle assemblee studentesche. Credo che una scuola che discuta, com'è giusto, anche di politica, per identificare gli orizzonti e le vie d'uscita dalla crisi, debba sforzarsi di prender coscienza: 1) dei dati essenziali della situazione morale, sociale, politica, economica e finanziaria; 2) del valore (primario? comunque non secondario) dell'educazione e della scuola, nel contesto delle priorità sociali e dell'equità intergenerazionale; 3) della capacità di identificare altri settori pubblici e privati a cui addossare i maggiori costi dell'istruzione. Se no, il dibattito sulla centralità della scuola e sulla dignità della funzione docente diventa uno sterile luogo comune, che avvelena il sangue e indirizza solo verso i governi di turno (che non pretendono di esserne esenti, ma che non possono rispondere di tutto) le responsabilità dei nostri guai. Dopo la guerra, l'Italia era in sfacelo, ma il morale era più alto, perché si ricordavano i guai passati e si sapeva in che direzione ricostruire, nonostante la diversità delle ideologie e delle militanze. Ora siamo in difficoltà, perché mancano forti emozioni, ideologie e speranze comuni. L'avere prevale sull'essere e di questo ci si accusa gli uni gli altri, senza trovare quel colpo d'ala etico e quel rigore politico che ci diano volontà e strumenti per combattere il male comune, in vista del bene comune. Il privato ha soldi, ma lo Stato langue. Non si dice più che la proprietà è un furto. Ma si pensa che gli altri sino ladri e che lo Stato sia, agostinianamente, un grande ladrocinio, anche quando è democratico e ipercontrollato, sicché dare allo stato appare stupido o colpevole, mentre tutti nei suoi riguardi si sentono in credito, continuando a chiedergli anche quello che non ha. Insomma c'è molta confusione nei rapporti fra pubblico e privato. Non si crede che il male comune sia male di tutti, che il bene comune sia bene di tutti e che lo Stato, nonostante i limiti più o meno gravi di chi lo ha governato e lo governa, sia un indispensabile strumento per combattere il male e per perseguire il bene comune. Chiarire questi rapporti, implicazioni, identità e appartenenze mi pare uno dei compiti della scuola: un compito che alcuni stanno affrontando con impegno, intelligenza e risultati interessanti, mentre altri enfatizzano i mali e la sfiducia, senza cercare fino in fondo le cause e senza trovare strumenti adeguati ad affrontarle. Se nonostante le reali e non immaginate difficoltà, per la scuola si è ricuperato nella finanziaria parte di ciò che si risparmia a causa delle "razionalizzazioni", frutto della contrazione delle leve demografiche, si può parlare nonostante tutto di conquista, anche se faticosa e amara, per le "lotte" che si devono fare in sede di governo, col quale pure si condivide l'obiettivo generale e altrettanto prioritario del risanamento. Ho sentito in Parlamento e ho sentito ripetere nelle piazze e nelle scuole occupate analisi e grida di battaglia di incredibile superficialità e faziosità. E' amaro, nell'infosocietà, vedere milioni di persone che credono negli oroscopi, nelle fatucchiere e nelle sciagure in arrivo per l'imminente fantasmatizzata privatizzazione della scuola, in virtù o per colpa dell'autonomia. E intanto le scuole non statali, anche le migliori, continuano a chiudere, in mancanza di una legge sulla parità e di contributi alla luce del sole, con attenzione al dettato e allo spirito della Costituzione, alle dignità e ai diritti da assicurare, al bilancio dello Stato da salvare, all'uguaglianza sostanziale da promuovere. 

D. Riuscirà a vedere la luce il gran disegno dell'autonomia, della parità, della riforma della secondaria? 

R. Si può credere che questi obiettivi non siano impossibili: forse un anno di attività parlamentare e governativa potrebbe essere sufficiente a concludere una o forse due di queste partite. Tutte e tre mi sembra difficile, in questa sorta di campagna elettorale permanente.

Sembra che Polo e Ulivo siano d'accordo su questi obiettivi, anche se poi la complessità delle scelte concrete, le difficoltà di percorso, di umore, di percezione sociale più o meno distorta delle questioni sul tappeto, di sussurri relativi ai vantaggi da assicurare alla propria parte e da negare alle altre, rendono a rischio ogni percorso parlamentare. Spesso si desidera e si teme la stessa cosa. E se il "nemico", che s'identifica di solito con chi rappresenta il potere, come se negli anni fosse sempre il medesimo, sostiene le stesse cose che un gruppo o "la base" dichiarano di volere, allora lo si denuncia come truffatore, perché non è credibile e perché non è tollerabile ammettere che si combatta nella stessa direzione, al vertice e in periferia, rischiando di prendersi parte della responsabilità, nel bene e nel male, di quello che accade o non accade. Ho detto solo una parte delle cose che vedo. Di soluzioni miracolose ne vedo poche. Per questo, più che la tale o tal altra soluzione proposta o sbandierata, m'interessa lo spirito con cui la si sostiene e il prezzo che si è disposti a pagare, non solo a far pagare agli altri, per conquistarla. E poiché non si può sempre ottenere ciò per cui ci si batte, m'interessa vedere come si elabora il lutto per le cose che non si ottengono o che ci deludono, e come si cerca di salvare il meglio delle proprie idee, anche in un contesto ritenuto, a ragione o a torto, sfavorevole. 

D. Così com'è questa scuola serve ancora? L'idea che si ha del nostro sistema scolastico è di una struttura ministeriale elefantiaca, incapace di ammodernarsi, impegnata a consolidare e alimentare il proprio potere, distante dai problemi concreti dei presidi, degli insegnanti, degli studenti, delle famiglie. E poi, gli istituti scolastici disseminati nel territorio, senza un reale coordinamento, fuori da reti di collegamento. Certo che la scuola serve. Ma solo se è scuola, non un'istituzione burocratica o aristocratica, incapace di fare la "fatica del concetto" e la "fatica dell'anima", per difendere le sue ragioni antropologiche, i suoi spazi istituzionali, la qualità delle relazioni, ossia il massimo possibile di rispetto di sé e degli altri, nonostante le delusioni e le insufficienze. Penso a Socrate, a Comenio e a Vittorino da Feltre, a Pestalozzi, e al rapporto che questi vivevano fra le angustie, le risorse, le istituzioni, i sogni, le idee e le realizzazioni del loro tempo. Hic Rhodus, hic salta. Struttura ministeriale elefantiaca, incapace di ammodernarsi, impegnata a consolidare e alimentare il proprio potere, scollegata? Solo in parte. Io vedo da anni anche un altro volto, che è l'opposto di quello descritto. Certe cose si davano per impossibili, con l'attuale struttura ministeriale, e sono state fatte. Cito per esempio le tre conferenze nazionali studenti e il mensile Studenti &C., che reca come sottotitolo "Mensile del MPI per i giovani e viceversa". Significa che il Ministero non solo trasmette, ma riceve, dialoga, scrive e legge, talora parla e ascolta. Tra poco saremo su Internet  anche col mensile, in virtù della BDP, e le scuole potranno utilizzare la rete per comunicare fra loro e con Centro. Naturalmente è più facile parlare con l'assessore provinciale di Trento che col Ministro della PI, nonostante l'energia fisica e morale degli ultimi ministri e nonostante l'interesse e il gusto che gli attuali sottosegretari hanno per capire, per farsi capire e per risolvere un po' di problemi. Conosco da anni funzionari formidabili, che lavorano con intelligenza e senza risparmio di energie, per risolvere quotidianamente un'incredibile massa di problemi. C'è anche chi si defila. Basta far male un po' di cose o non farle affatto, per vivere con relativa calma, con la scusa che i problemi sono più grandi di noi e che non possiamo salvare il mondo. Il mondo no, ma un certo numero di situazioni sì. In ogni ambiente mettere d'accordo intelligenza, disponibilità familiare, salute, entusiasmo, spirito di collaborazione, controllo di gelosie e invidie, gioia per quello che di positivo si fa e per i guai che si tengono lontani, non è facile. A volte basta poco per far cambiare la percezione e il funzionamento di un'istituzione. In complesso l'organismo ministeriale non funziona secondo regole di moderna efficacia/efficienza amministrativa, ma resiste nonostante tutto. Ci sono ritardi e incongruenze incredibili, ma certo non fa notizia la grande quantità e talora la buona qualità degli atti amministrativi e delle iniziative che si prendono al centro, per aiutare e per valorizzare, non per ostacolare o deprimere le scuole. Capisco che in periferia si avverta la schizofrenia tra provvedimenti che seguono logiche diverse. A far molte cose, con strutture e persone diverse, questo è inevitabile: io noto però, talora per casi fortuiti, anche l'incontro, il coordinamento, la disponibilità a collaborare, a correggere, a mettersi nei panni degli altri. E' comunque impossibile parlare con tutti e ascoltare tutti. Per questo vogliamo l'autonomia: chi sta al centro deve aver più tempo per capire, per comunicare, incoraggiare, verificare, coordinare, e meno per gestire processi amministrativi che possono essere affrontati in altre sedi. Bisogna anche operare secondo la logica progettuale, che non va proposta solo alle scuole, ma va gestita anche dal centro, con rispetto dei tempi, delle persone, delle parole date, delle informazioni di ritorno che arrivano: non basta una lettera ai giornali a delegittimare un'idea o un provvedimento. Ma se si capisce d'aver sbagliato, bisogna rimediare in tempi brevi. Sarà banale dirlo, ma legiferare, governare e giudicare è difficile. La mancanza di ideologie, di leaders carismatici, di regole e di lealtà certe, nella congerie delle norme, rende ciascuno sospettoso, frammenta i gruppi e rallenta l'elaborazione del consenso. Si naviga a vista. Nell'incertezza circa gli esiti delle scelte, si tende a scaricare la responsabilità della non decisione sugli altri, sulla mancanza di tempo, di risorse, di elementi per decidere. Le responsabilità pesano e i motivi per non decidere sono molti. Basta che uno si metta per traverso, obietti, minacci, e tutto o quasi si ferma. Anche in queste condizioni, che qualcuno chiama l'immobilismo ministeriale o l'attivismo insensato, il lavoro di chi crede in qualcosa è duro, costante, vario, talora disperante, talora esaltante. La sera si è stanchi non solo per quello che si è fatto, vorticosamente o noiosamente o animatamente, ma per il peso di quello che non si è potuto fare, per i ritardi, le non risposte, i treni perduti. Tornare in famiglia, telefonare a un amico vero, ricuperare la comunione e il senso vero delle parole, delle cose, delle iniziative, serve a rimotivare la partecipazione e a ricominciare da capo, giocando su due virtù opposte e complementari: la dimenticanza degli insuccessi e dei torti patiti e la memoria di quello che nonostante tutto si è fatto e delle persone valide e delle buone idee che nonostante tutto circolano, in questo cimitero di progetti falliti e in questo cantiere di progetti da realizzare. Dimenticavo un'ultima virtù, di cui parlava Nosengo alla vigilia del 68: l'eutrapelia, che è la virtù del buon umore, della giocosità, dell'ironia.


8) Intervista sulla Riforma Moratti. Titolo: La scuola che vorrei

di LUIGI PAGLIARO, de Il Tempo di Roma (2003)

 

Tra girotondi, scioperi e dibattiti la scuola è tornata da qualche tempo a far parlare di sé, o meglio di cosa sarà da grande. Il ministro per l'Istruzione Letizia Moratti , dopo la commissione Bertagna e gli “stati generali della scuola” ha predisposto un disegno di legge delega, discusso con le regioni e approvato dal governo, e ora in discussione nella Commissione Cultura del Senato. Abbiamo chiesto al professor Luciano Corradini, ordinario di Pedagogia generale all'Università di Roma Tre, presidente nazionale dell’UCIIM, di formulare alcuni giudizi su questo disegno di legge, che alcuni guardano con speranza, altri con timore o con aperta avversione.  

D. Che cosa la convince e che cosa critica nel documento del governo?

R. Nel testo del ministro Moratti ho apprezzato i chiari riferimenti alle finalità educative della scuola. Su questo tema c’è continuità con la legge 30/2000, votata dall’Ulivo. Non è un consenso scontato. Non è stato facile neanche per la passata maggioranza scrivere in una legge, senza ambiguità, che la scuola è finalizzata “a favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi delle età evolutiva, delle differenze e dell’ identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia... e secondo i principi sanciti dalla Costituzione”.

Il problema sta nel trarre le conseguenze giuridiche, amministrative e professionali da queste affermazioni. Ma se queste non ci fossero, nessuno potrebbe obiettare alla scuola delle tre i (inglese, informatica, impresa) o ad una scuola preoccupata solo di soddisfare i gusti del “cliente” e del mercato. Nel testo della Moratti si fa anche un passo avanti rispetto alla legge 30, là dove si dice che la scuola favorisce la “formazione spirituale e morale, lo sviluppo della coscienza storica e di appartenenza alla comunità locale, alla comunità nazionale e alla civiltà europea”. Qualcuno ha guardato con sospetto a queste espressioni, come se la “formazione spirituale e morale” e la “civiltà europea”, fossero di per sé moralismo, xenofobia e razzismo. Lo spirito e la morale non sono monopolio degli spiritualisti e dei moralisti. E’ la Costituzione che all’art. 4 ricorda ad ogni cittadino il “dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. E la civiltà può significare sia “progresso”, in opposizione a “barbarie”, sia “cultura”, con significato più neutro, per indicare il complesso dei tratti, degli ideali, dei costumi, dei modelli di comportamento di un popolo. Meno apprezzabile mi sembra il ricorso della legge alla delega al governo per emanare, entro 24 mesi, “uno o più decreti legislativi per la definizione delle norme generali sull’istruzione”. Queste norme generali sarebbe meglio che uscissero da una convergenza parlamentare. Uno dei limiti della legge 30 è stato proprio il fatto che la si è votata a maggioranza. La nuova maggioranza uscita dalle elezioni non le ha riconosciuto validità e l’ha bloccata. Non sarebbe certo auspicabile che qualcuno aspettasse 4 anni nella speranza di cambiarla di nuovo. Il ministro Moratti ha detto che vuole una legge per il paese, non la sua legge. E allora perché ha chiesto la delega? Naturalmente si può capire la fretta. Si è già perso un anno e un lungo dibattito parlamentare sicuramente ne richiederebbe un altro. Si sa che presto e bene non stanno facilmente insieme. La responsabilità di chi è al governo è quella di decidere la rotta, navigando fra Scilla e Cariddi. Il ministro Berlinguer ha navigato per anni in modo coraggioso, ma anche temerario. Con la legge 30 ha forzato e ha fatto naufragio. Non auguro a nessuno di naufragare. La scuola aspetta già da troppo tempo una riforma non velleitaria e accettabile, se non proprio da tutti, almeno da una grande maggioranza di cittadini.  

D. Che cosa c’è di nuovo nel disegno di legge della Moratti?

R. Beh, intanto c’è il fatto nuovo della legge costituzionale 3/2001, che riconosce alle regioni la competenza legislativa sull’istruzione professionale e non solo sulla formazione professionale, oltre a una competenza concorrente sull’istruzione. Il testo Moratti ritorna allo schema 5+3+5, conferma l’obbligo formativo fino a 18 anni, introduce la valorizzazione del canale della formazione professionale, che si vuole rendere di dignità uguale a quello della scuola, anche se di durata variabile dai 17 ai 21 anni. C’è anche un implicito ritorno dell’obbligo scolastico ai 14 anni, mentre la legge 9 attualmente in vigore prevede l’obbligo scolastico fino a 15 anni. Inoltre c’è la possibilità di anticipare di mezzo anno l’iscrizione dei bambini alla scuola dell’infanzia e a quella elementare. Alcune cose sono apprezzabili, altre meno. Sull’anticipo non gridiamo allo scandalo, ma sinceramente non sembra indispensabile turbare l’ordine esistente con una norma discutibile ( se i comuni hanno soldi e se le famiglie vogliono…) nella scuola di base per concludere a 18 anni e mezzo invece che a 19. Quanto alla scansione proposta del ciclo di base, forse sarebbe meglio lasciare maggiore flessibilità, per non perdere l’esperienza della continuità che si sta vivendo negli istituti comprensivi. 

 D. E' proprio convinto che la scuola debba avere prioritariamente una valenza educativa?

R. Usciamo da un equivoco diffuso. La scuola 'educativa' non è la scuola dei sentimenti, delle prediche e delle chiacchiere, al posto della ragione, dell’apprendimento e delle competenze, ma la scuola della persona, del cittadino e del lavoratore, come vuole la Costituzione, che all’articolo 3 finalizza l’ordinamento al pieno sviluppo della persona umana, alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini e alla partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Certo che sono necessarie le discipline, i concetti, le competenze. Ma tutto questo deve avvenire in un orizzonte di senso e in un clima che favorisca la comunicazione e motivi allo studio, alla ricerca, alla crescita personale, civica e professionale. La persona non vive nell'astrattezza metafisica, ma nella storia, in un tempo determinato, con certe persone, che non sono fatte di sola intelligenza. 

D. Ritiene che il corpo docente possa svolgere questo ruolo educativo?

R. Sì, se gli insegnanti, seppur titolari ciascuno della propria disciplina o di gruppo di discipline, si sentono non solo 'risorse umane' , ma persone interessate a crescere umanamente e professionalmente, attraverso l’aiuto a crescere di altre persone.  

D. Non è così semplice...

R. In effetti questo processo implica che ci sia, fra docenti e studenti, dialogo, magari con momenti di scontro, sinergia, reciprocità, sforzo di comprensione dei diversi ruoli e delle diverse sensibilità. L'educazione implica necessariamente uno sforzo, un coinvolgimento diretto, perché si deve agire in termini di libertà: non una libertà lasciata a se stessa ma curata, sollecitata, promossa, orientata, ostacolata in certi momenti, perché non tutto ciò che viene dalla libertà è a favore del pieno sviluppo della persona. 

D. Secondo lei, quindi, la scuola dovrebbe occuparsi dei problemi e delle difficoltà che vivono i giovani come il tabagismo, l'alcolismo, gli incidenti stradali, la tossicodipedenza...

R. Ne sono fermamente convinto, perché questi sono elementi che contribuiscono a 'spegnere' anziché 'promuovere' la loro persona. Ma non si tratta di rinunciare ad essere scuola per diventare clinica. Spesso si dimentica che la scuola, gli operatori scolastici, gli insegnanti, sono “convocati” dalla Costituzione italiana, prima ancora che dalle circolari ministeriali, a promuovere questo benedetto pieno sviluppo della persona e questa partecipazione alla vita sociale. Per questo ribadisco che non interessa soltanto quello che c'è nella testa dei ragazzi, ma anche quello che c'è nel loro cervello, nel loro cuore, nei loro polmoni, che cosa ne fanno del sapere offerto loro dalla scuola". 

D. Qual è il pericolo maggiore che riscontra nei giovani?

R. Con il tipo di società che ci troviamo, rischiano di appiattirsi sull’immediato e di perseguire soltanto una condizione personale di benessere e di piacere. E' difficile trovare persone disposte a rinunciare, a sacrificarsi, per raggiungere obiettivi personali e sociali di lungo termine. Di qui la necessità di dedicarsi a “curare” ogni ragazzo, perché arrivi a 'pro-gettare' se stesso, a 'pro-iettarsi' in avanti. 'Pro' vuol dire 'avanti', ma vuol dire anche 'a vantaggio di'. 'Gettare' in avanti, che cosa? Il tipo di persona che si vuol diventare, il tipo di persona che si ha in mente. Non una mente anchilosata e denutrita. 'Diventa ciò che sei', diceva Pindaro". Ma noi siamo anche quello che ci aiutano a diventare.

 

 

ENRICO LENZI (Avvenire 3.1.2009) COSTITUZIONE IN CLASSE. LEZIONE DI CITTADINANZA

D. L’insegnamento di «Cittadinanza e Costituzione» rimane ancora al nastro di partenza. Per ora, infatti, non si è ancora avviata l’annunciata sperimentazione di questa relativamente nuova materia, che punta a far conoscere e praticare la nostra Costituzione, nella prospettiva della cittadinanza: è questo un termine molto utilizzato in sede europea per indicare le competenze necessarie a vivere in una società complessa, dal livello locale a quello mondiale. Eppure questa materia è stata l’unica, tra le riforme introdotte dal ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, ad aver raccolto unanime consenso.

R.“Guardi, - risponde Luciano Corradini, il pedagogista accademico e uomo di scuola a cui il Ministro Gelmini ha affidato la presidenza di un gruppo di lavoro su questa tematica, - il problema è più interessante e più complesso di quanto comunemente si creda, sia in senso pedagogico e didattico, sia in senso istituzionale. Chi non è d’accordo sul far conoscere a scuola la Costituzione? C’è un illustre preludio a questo accordo. I padri costituenti nel dicembre del 47 votarono con applausi unanimi un odg Moro che chiedeva che la nuova Carta trovasse “senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado, al fine di rendere consapevole la giovane generazione delle conquiste morali e sociali che costituiscono ormai sicuro retaggio del popolo italiano”. “L’indugio però ci fu, di ben dieci anni: fu lo stesso Moro, divenuto ministro dell’istruzione, a introdurre, nel 1958, “l’insegnamento dell’educazione civica” nella “scuola secondaria e artistica”. Il cammino per arrivare alla legge Gelmini è stato però lungo e tormentato. Ora ci sono le premesse legislative per fare un concreto passo avanti, come ha detto lo stesso presidente Napolitano in occasione della cerimonia d’inizio d’anno scolastico.” Corradini ha abbracciato con entusiasmo il compito affidatogli, anche perché lo studio dell’Educazione civica (come un tempo si chiamava la materia), è un suo amore antico. A iniziare «dall’esperienza fatta con l’UCIIM e con l’Unione studenti medi nel 1968, quando, da docenti delle superiori – scrive nel libro-diario "A noi è andata bene", uscito nel 2008 con Città Aperta - cercavamo di mettere in pratica il decreto Moro, che prevedeva due ore al mese di questa materia, affidata all’insegnante di storia, senza però un voto distinto”. Contro questa debolezza istituzionale Corradini s’impegnò poi a metà degli anni ’90, come vicepresidente del CNPI e come sottosegretario nel governo Dini, con Lombardi ministro. Si resero conto che nel testo costituzionale si trovano in sintesi tutti i valori che venivano proposti fino ad allora con una serie di circolari sulle “educazioni”, spesso scollegate e transitorie: e che la Carta era ed è un testo dotato di singolare chiarezza e densità pedagogica, utile da proporre alle scuole, ai dirigenti, ai docenti e agli studenti, anche perché il passaggio all’autonomia non comportasse la perdita di una bussola educativa unitaria. Ne uscì la Direttiva 8.2.2996, n. 58 con l’allegato documento dal titolo Educazione civica e cultura costituzionale. Si elaborò anche un “curricolo continuo” dalla scuola materna alla secondaria superiore, che però non entrò in vigore per la fine del Governo Dini.

D. Sicché in 60 anni di vita democratica, l’educazione civica ha avuto il percorso di un fiume carsico, essendosi ad un certo punto inabissata. Siamo davvero alla svolta?

 R. Spero di sì. Non voglio affatto dire che con i governi del Centro sinistra non si sia fatto niente e che le scuole siano rimaste estranee ai problemi della cittadinanza. Dico solo che un conto è affidarsi alla buona volontà di tutti i docenti, un altro conto è dare dignità e forza di disciplina ad un insegnamento che presenti organicamente, non in termini mnemonici e formali o propagandistici, il contenuto della Costituzione e dei problemi che vanno affrontati per crescere nell’interiorità e nelle relazioni, anche perché i ragazzi non svaniscano nelle discoteche e negli stadi, non cedano alla tentazione dell’egoismo e della violenza, e non si disperino per la disoccupazione. Poi è naturale che si diventi buoni cittadini anche con l’italiano e la matematica, se queste non diventano solo tecniche linguistiche.

DCosa dice la legge Gelmini in proposto?

R.Il primo articolo non è un capolavoro di trasparenza. Prevede “l’attivazione di azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione”, nell’ambito delle aree storico geografica e storico-sociale e del monteore complessivo previsto per le stesse”, e promuove una “sperimentazione nazionale”, in vista del passaggio ad ordinamento come disciplina distinta con voto autonomo e con un monteore di 33 ore l’anno. Ma questo non è detto in modo esplicito, come era nel disegno di legge del 1° agosto, lasciato cadere, non so bene perché, dal decreto legge 137.

 D. A che punto è la sperimentazione?

R. Sulle Linee guida elaborate dal gruppo di lavoro e sulla bozza di decreto che lancia la sperimentazione si sono già espressi favorevolmente sia il CNPI sia i forum delle associazioni di studenti e dei genitori, che pure non si nascondono i problemi relativi ai tempi e soprattutto alla riduzione delle ore disponibili. L’orientamento è quello di dare carattere biennale alla sperimentazione, per iniziare da quest’anno a mettere a punto gli strumenti e a dare spazio di riflessione e di discussione ai docenti. S’intende valorizzare le buone pratiche, ma anche sollecitare l’adozione di ore e di voti specifici per la “disciplina” cittadinanza e costituzione. Agli insegnanti si propone di riequilibrare il rapporto fra passato presente e futuro, fra conoscenze ed esperienze, fra linguaggi e comportamenti. Su questa base si potrà ritornare sui regolamenti varati il 18 dicembre, che solo marginalmente e con titubanza hanno citato la nuova disciplina Cittadinanza e Costituzione. Penso che in sede di necessaria revisione delle “indicazioni nazionali per il curricolo” sia possibile avere una visione unitaria e complessiva del curricolo. Se no, la nuova disciplina resterà un’intrusa, che ruba ore alla storia; e ci si limiterà a parlarne bene, tornando indietro rispetto allo stesso decreto Moro del ‘58. 

D. Che cosa succede in proposito all’estero?

R. Sul piano comparativo si notano paesi che hanno fatto la scelta della disciplina distinta, altri che seguono la via della “trasversalità” dei contenuti civici ad ogni disciplina. Una cosa non esclude l’altra. Nessun paese è soddisfatto delle soluzioni pedagogiche e didattiche trovate per questa area, ma nessuno è rassegnato a lasciarla cadere fuori dal curricolo o a diluirla in esso tanto da smarrirne lo specifico apporto a un fondamentale compito educativo, che nella sua ampiezza interessa e impegna tutte le discipline e tutta la vita scolastica 

D. Il problema si pone soprattutto in rapporto ad un’Italia sempre più multietnica

R. Certo, e sempre più sollecitata alla mobilità internazionale. I primi destinatari di “cultura della cittadinanza” restiamo noi italiani. Siamo noi a dover conoscere e soprattutto vivere i valori della nostra Costituzione. Anche perché chi arriva da fuori deve apprendere le norme di convivenza, che non sono pure regole di galateo, non solo leggendole nella Costituzione, ma anche vedendole nella testimonianza e nel comportamento degli italiani. Soltanto davanti a "cittadini praticanti", se mi passa il termine, possiamo dare corpo ai valori della cittadinanza stessa.



Intervista a cura del prof. Giuseppe Rulli, direttore di

Professione Pedagogista, rivista dell’ANPE, n.33, 2009, pp.57-63 (6.10.09)

 

I temi affrontati:

Per la ricerca pedagogica e per l’esercizio della professione di pedagogista, l’educazione alla cittadinanza e la convivenza civile costituiscono la problematica più complessa e urgente da affrontare. Complessa perché i due concetti agiti nei livelli nazionale ed europeo devono essere da una parte coniugati nei diritti-doveri del cittadino, dei servizi, dei soggetti istituzionali preposti alle tutele e, dall’altra, collegati alle politiche sociali, all’immigrazione, al dialogo interculturale. Urgente perché la cittadinanza e la convivenza civile sono considerate nel quadro delle emergenze riferite al mondo giovanile e delle risposte che la scienza pedagogica è chiamata ad elaborare in termini di programmi e di azioni formative. Si tratta di temi vastissimi che investono non solo il campo della ricerca pedagogica, ma tanti altri discipline sia scientifiche che umanistiche. Sviluppare tali temi, anche in sintesi, richiederebbe un lavoro notevole impossibile da realizzare con la rivista. Nel presente dossier tenteremo di capire attorno a quale di idea di cittadino futuro oggi le istituzioni promuovono azioni formative per l’esercizio del diritto della cittadinanza attiva e quali programmi si stanno realizzando. 

Non potevamo non incontrare in questo viaggio uno dei maggiori pedagogisti italiani esperti di educazione alla cittadinanza: il prof. Luciano Corradini. Studioso noto a tutti che ha sviluppato ricerche in questo settore come ordinario di pedagogia generale nelle Università di Milano e di Roma Tre. Ma è anche noto per le sue attività svolte per parecchi anni, come presidente dell’IRRSAE Lombardia, come vicepresidente del Consiglio Nazionale della P.I. e sottosegretario alla PI nel Governo Dini, col ministro Lombardi.

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D. Professore buongiorno. Le interviste realizzate da Maria Angela Grassi hanno permesso di costruire una mappa dei maggiori progetti di educazione alla cittadinanza e alla convivenza civile ispirati da diversi approcci teorici. In base ai Suoi studi e alle Sue esperienze, come  giudica il livello di cittadinanza agita nel nostro Paese?  

R Non sono originale a dire che complessivamente è piuttosto basso. Una ricerca psicografia ripetuta più volte ne giro di un trentennio condotta da Gabriele Calvi, diceva un decennio fa che esiste un sorta di basso continuo nel Paese: lo riconduce ad una sorta di sottosviluppo civile e civico. Siamo uomini dell’orto, dice in sostanza, non della frontiera. Talora si professa sfacciatamente il me ne frego e il fatti i fatti tuoi, talora compaiono vistosi discostamenti fra quello che si pensa, quello che si dice e quello che si fa. Io concludo che l’Italia non è fatta da cattivi, che sono gli altri, e da buoni che siamo noi, fintanto che ci danno ragione, ma da persone umane fra le quali la ragione e il torto…con quel che segue nel testo manzoniano. E il diciannovenne Manzoni scriveva: sentire e meditar..di poco esser contento..non far tregua coi vili, né dir mai verbo che paluda al vizio o la virtù derida. Quando scrisse queste cose che ho citate a memoria, in morte di Carlo Imbonati, non era “fatto”, né ubriaco, e non stava guidando un suv. Ma neanche allora erano tutti come lui. Comunque non è sempre vero che a pensar male si fa peccato ma ci si prende. Spesso non ci si prende affatto, perché s’imprimono nella mente più gli episodi “cattivi” che quelli “buoni”. E il pregiudizio complica inutilmente le cose. 

D. A Suo parere si possono individuare anche responsabilità dei pedagogisti che operano ai vari livelli, da quello accademico a quello territoriale alla base delle carenze da Lei evidenziate? 

R. Rispondo citando il Preambolo alla Dichiarazione universale dei diritti umani, che mi sembra il più stringente, realistico e insieme generoso appello al dovere di educare, come condizione dell’essere: il diritto all’educazione viene citato solo all’art. 26. La Dichiarazione, vi si dice, è proclamata “come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo e ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto, tanto fra i popoli degli stati membri, quanto fra quelli dei territori sotto posti alla loro giurisdizione”. Si tratta di parole limpide e “pesanti” da meditare e da portare: ma paradossalmente è a loro che affidiamo il compito di alleggerire il peso terribile che l’umanità sta portando sulle spalle, a causa di culture, atteggiamenti e comportamenti “dis-umani”, di cui si fatica a liberarsi. Chi si occupa di educazione tocca il nervo più sensibile della nostra riverita specie. E sperimenterà prima o poi di trovarsi “l’uomo come nemico”, come diceva un conservatore francese dell’Ottocento. 

D. La quotidianità offre molti spunti ai pedagogisti per riflettere e agire. Crisi, rotture, disordini, contrapposizioni, individualismo estremo, deresponsabilizzazione, conflitti istituzionali, illegalità, negazione di diritti, razzismo, clandestinità, sballo, questione meridionale (da anni mai risolta), questione del nord, disegnano scenari sempre nuovi il cui oggetto primario di dibattito, a me, pare essere più la diversità degli individui che il “bene” comune. Professore, che succede, sta nascendo una nuova realtà sociale?  

R. Ci sono state altre epoche storiche in cui tutto era crollato e sembrava che si fosse alla fine. Basta pensare al periodo della guerra greco-gotica. Umberto Galimberti parla per il nostro tempo di una sorta di mutazione culturale profonda, che sarebbe caratterizzata dalla comparsa del nichilismo, già profetizzata da Nietzsche. L’ospite inquietante è per lui, e in qualche modo mi sento di dargli ragione, il nichilismo. Per risalire la corrente propone di ricuperare una parte sana che ci sarebbe dentro di noi: un dàimon, alla greca, che potrebbe di nuovo riportarci all’eudaimonìa, ossia alla felicità. Ciascuno usa per ricostruire e riprendere a sperare i mattoni che si trova intorno. Io penso che i sommi greci ci hanno indicato la strada del divino e che i circa due millenni successivi hanno utilizzato i materiali della metafisica, della logica e della psicologia classica per una nuova costruzione teologica, che non mi sento di liquidare con ragionamenti di tipo positivistico alla Comte, magari riducendo il tutto ad una stagione mitico-religiosa ormai uccisa dall’apparato scientifico tecnologico. Questo apparato lavora alla ateizzazione del mondo. Se Dio non risolve i nostri problemi, molti pensano con qualche buon motivo, vuol dire che non c’è. Il fatto è che senza di lui, non c’è dàimon che tenga. Nel nostro mondo ci sono formidabili strumenti ed eventi di distruzione, ma anche di costruzione e di ripresa. Ci si offende di continuo, ma ci sono anche molti che continuano nonostante tutto a sorridere: e si vede che si possono rimarginare certe ferite. Chi si occupa di educazione pensa come Socrate a far la levatrice di quello che sta per nascere, non il becchino di quello che è morto. Ma so che questa potrebbe essere solo una frase ad effetto. Ci sono molti che “muoiono” da piccoli, perché non trovano una levatrice o un educatore capace di mettersi al loro fianco e di aiutarli a “sortirne insieme”, come diceva don Milani. 

 D. Nuovo senso di appartenenza, sicurezza, ricerca di eccellenza, lavoro, competenza, limite della conoscenza, qualità umane, creatività, tecnologie e nuove forme di comunicazione e di informazione, risparmio, integrazione di culture, nuovi concetti di libertà, democrazia, uguaglianza e giustizia,” potrebbero essere identificati come esigenze identitarie della società. Lei concorda? È possibile fare un identikit del cittadino che dovrà “vivere” la collettività futura? Di quali valori e stili di vita dovrà essere portatore? 

R. La saggezza che da millenni si manifesta in tutte le culture non è come una cava di pietre che, quando è esaurita, diventa solo una voragine inutilizzabile. Il materiale di costruzione lo trovo ancora nel pensiero e nell’esperienza ebraica greca romana cristiana illuministica liberale socialista ecumenica e interculturale, che ci consente di ricuperare visioni ed esperienze di tipo orientale. Sto con Paolo VI, che diceva questo mondo “meraviglioso e terribile”. Bisognoso comunque di un senso che ci sfugge, di un compimento finale, senza il quale il mondo sarebbe, come si legge in Shakespeare, una storiella raccontata da un imbecille. 

 D.   In questo senso, cosa significa e come si può formare oggi il cittadino di domani secondo i principi della Costituzione italiana e gli orientamenti della Comunità Europea?  

R. Della Costituzione italiana sono innamorato. La Costituzione europea, non ancora pienamente operativa e sempre a rischio di riduzionismi, rappresenta una dilatazione a scala continentale dei nostri principi costituzionali e dei diritti umani. Guardando il mondo da un altro pianeta si possono scoprire massacri e disastri. Quelle “carte” sono la carta d’identità della nostra umanità più profonda, anche se in gran parte finora irrealizzata. 

D. Non possiamo affermare che esiste già una identità europea, ma possiamo dire ch’ è un’esigenza sentita? 

R. Certo è un’esigenza sentita, ma troppo debolmente. Si potrebbe dire che c’è un consenso permissivo nei riguardi della costruzione politica dell’Europa, non una volontà traente. E talora si trovano anche atteggiamenti ostili, perché la formula politica dell'Europa non procede speditamente verso il modello federale. Ho cominciato da giovane insegnante a frequentare ambienti europei e vedo ancora l’Europa come un sogno che prima o poi dovrà avverarsi. Forse si è già in parte avverato, anche se non sappiamo quale destino politico ed economico noi europei sapremo darci. La Cattedrale, il Parlamento di Strasburgo, con l’Inno alla gioia, il 9 maggio, il motto "in varietate concordia" mi toccano ancora profondamente, come l’estate scorsa, quando ho partecipato al convegno del SIESC FEEC sulla cittadinanza europea. Quando sono stato in quei luoghi nel 1994 con i 300 ragazzi del Progetto Giovani del Ministero, ho raccolto testimonianze scritte lucide e commoventi, da parte di ragazzi che avevano un’intelaiatura interiore di tipo storico, giuridico, affettivo. Chiesero, al Palais de l’Europe, che in luglio di ogni anno rappresentanti degli studenti delle medie superiori s’incontrassero a la Maison de la Jeunesse, per confrontare strumenti, metodi e idee dei diversi statuti degli studenti. Il tema che proponemmo era “Cittadini 2000”. Cambiò il Ministro e tutto si fermò. Ma chi non ha questa intelaiatura, chi incontra gente da “no euro”, chi “si fa i fatti propri”, pensa magari a rinforzare l’area degli euroscettici o le reti europee delle mafie, piuttosto che a valorizzare questa patria comune, ricca di potenzialità ancora poco capite e poco sfruttate.

 D. Pedagogicamente esiste un momento della vita dell’individuo in cui si forma l’identità?

R. Ho passato decenni a ragionare con Carlo Perucci sugli stadi pedagogici e con Aldo Agazzi sul “giusto momento”. Ora mi sembra che quelle prospettive non abbiano del tutto perduto il senso con cui sono state volonterosamente elaborate, talora sulla base empirica delle ricerche di Piaget e di Wallon, ma che sia difficile trovarvi oggi riferimenti empirici. Le età sono state sconvolte. Ricordo la luminosa espressione di San Tommaso, per il quale ad un certo punto il fanciullo “incipit esse suus”. I riti di riconoscimento di questo inizio o sono scomparsi o sono cambiati, in modo tale che si fatica a riconoscerli. Con i miei tre figli e poi con i 10 nipoti ho sperimentato la diversità dei tempi di cosiddetta maturazione. Ma mi sono convinto che con la scusa del rispetto non si può rinunciare a capire, a proporre, a correggere, ad attendere e valorizzare una parola amica, per conquistarsi dei “crediti” di credibilità. Sulla base di questi si può essere in un certo senso ospitati nella mente dei nostri piccoli, talora permalosi e chiusi nei loro mondi, per aiutarli a scoprire questa famosa loro identità, che non si costruisce solo con i compagni di scuola, di giochi o con le tempeste elettroniche che invadono le loro menti. Si sta male ad essere “scaricati” dai ragazzi, ma a volte non siamo capaci noi di metterci sulla loro lunghezza d’onda. Quando il contatto è ripreso, si può, anzi si deve essere seri e severi. Pinocchio ha ancora molto da insegnare. 

D. Gli adulti tendono a mantenere lo “status quo”, mentre i giovani spingono al cambiamento. Quanto le manifestazioni giovanili sono veramente un loro disagio  e quanto un loro bisogno che non trova soddisfacimento?   

R. Mutamento e cambiamento sono parole centrali e un po’ mitizzate della sociologia e della psicologia. Ma non è detto che i giovani siano aperti al cambiamento: spesso si accontentano di oggetti di consumo e non guardano al domani, forse perché pensano ad un presente indefinito o perché hanno paura di perdere quel poco o molto che hanno. Di fatto il mondo illude e non aiuta a sperare e a prevedere e prevenire. Ci sono in internet e in TV luoghi sollecitanti e inquietanti, che potrebbero utilmente risvegliare molte energie e disponibilità al cambiamento di stili di vita, di frequentazioni, di letture, di riconsiderazione delle spese. Se non si trova un centro di aggregazione, un leader positivo, si rischia di mettersi in fila dietro cantanti, stilisti, facitori di opinioni di corto respiro e di limitare magari la volontà di cambiamento allo sporcare i muri, senza neanche lasciarvi un messaggio che faccia pensare. E gli stupri sono il senso di questi bisogni deviati, frutto di personalità non cresciute e di adulti non esemplari.

 D. Quali sono i bisogni formativi dei giovani?

 R. I giovani, tutti, hanno bisogno di incontrare adulti credibili e compagni leali. Cioè hanno bisogno di educazione, ma spesso non sanno distinguere fra Lucignoli e Grilli parlanti.

 D. Il processo riformatore delle amministrazioni pubbliche continua a mettere al centro dei servizi il cittadino, ma non sempre nei comportamenti quotidiani si riscontra l’applicazione tale principio. C’è il rischio, secondo Lei, che questo possa avviare un processo che ci accompagnerà ad un nuovo concetto di cittadinanza agita? E quale potrebbe essere tale concetto?

 R. La risposta è la cittadinanza attiva, di chi sa interessarsi, informarsi, partecipare. Facile a dirsi. “Cittadinanza e Costituzione” può essere un’occasione importante per qualche apertura di mente e di cuore in questa direzione.

 D. Possiamo indicare qual è la più importante finalità formativa/educativa della futura società che permetta ai cittadini di agire i diritti di cittadinanza?

 R. Collegare cervello, cuore e fegato. Senza perdere di vista stomaco e apparato genitale. Sono gli organi bersaglio delle cosiddette “educazioni”, che sono state utili, secondo me anche indispensabili, ma che non possono sopravvivere come semidiscipline senza dignità curricolare. Con Cittadinanza e Costituzione si è sperato di uscire da questa condizione. La Costituzione è anche un testo robusto, chiaro, condiviso ai massimi livelli, dopo una guerra terribile: una miniera o una grotta inesplorata e inutilizzata.

 D. Pensa che i pedagogisti, nella loro qualità di professionisti dell'educazione e della formazione, possano contribuire efficacemente per sostenere l’avviato il processo di cambiamento sociale, anche nel caso in cui operino in regime libero-professionale o costituendo società di pedagogia, in analogia a quanto avviene in altri ambiti professionali?

 R. Sicuramente sì.

 D. Professore, per concludere, Le pongo altre due domande, di ordine generale. Come definirebbe il rapporto tra pedagogia e politica?

 R. In sé le due discipline sul piano teorico sono strettamente connesse. Oltre ad un’esigenza giustificativa, la pedagogia si caratterizza anche per un’esigenza esecutiva. Ciò non significa che tutti i pedagogisti siano versati in utroque. Certo suscita qualche stupore il fatto che per alcuni elzeviristi tutti i mali della scuola vengano dai pedagogisti e dai sindacalisti. Basta aggiungerci i comunisti e il gioco è fatto. Mentre per altri domini della politica i tecnici sono utilizzati e riveriti, salvo i casi isolati della “malasanità”, e comunque non si pensa di colpevolizzarli per i guai che non riescono ancora ad eliminare, per le questioni educative s’interpellano assai poco i pedagogisti, ritenendoli spesso responsabili della “maleducazione” diffusa. Un po’ di serenità di giudizio non guasterebbe.

 D. Mai come negli ultimi tempi “l’educazione” compare con maggiore frequenza nei discorsi politici, nei dibattiti televisivi, nelle colonne dei giornali, mentre pedagogisti ed esperti di scienze dell’educazione vengono interrogati a proposito di eventi che accadono nella nostra realtà quotidiana. Si tratta, a mio avviso, di una esaltazione posta nella direzione della tutela del “diritto all’educazione” percepito come minacciato dalle nuove sfide. Ciò lo dimostra il fatto che in una comunità dove lo “stato di diritto” è sano l’educazione è sempre lontana dalle cronache quotidiane. Professore Lei che ha esercitato anche funzioni di governo, pensa che tutto questo possa essere interpretato come fallimento delle politiche educative?

 R. Sinceramente sì. Non si sa veramente con chi prendersela, ma è un fatto che il governo ministeriale di una massa sterminata di materie da gestire, da monitorare, da decidere e da accompagnare con coerenti atti amministrativi, quando i governi sono costruiti con criteri politico-partitici, che ogni tanto cambiano ricominciando da zero o quasi, non aiuta l’autorevolezza, la continuità, la coerenza di cui c’è bisogno. Per fare solo un esempio. Basta un articolo di giornale di un ministro autorevole che mai si è occupato seriamente di scuola per mandare all’aria anni di ricerca docimologica. Non difendo tutti i cultori della pedagogia, della filosofia, delle lettere e della storia. Fosse solo per loro, l’Europa non si sarebbe mai fatta, anche se i politici e gli economisti hanno fatto, per così dire, un lavoro a metà. Dico però che per materie tanto complesse, che hanno incidenze non facilmente controllabili “a valle” delle decisioni, ci vorrebbe una continuità di intenti sul piano politico, amministrativo, gestionale. Molte cose buone si fanno lo stesso, ma il senso del “sistema formativo allargato”, come si continua a dire, si va perdendo in un mare di sfiducia. Contro questa bisogna combattere, a costo di dosi notevoli di pazienza e di capacità di utilizzare i propri poteri, pochi o molti che siano, nella direzione della testimonianza civile, civica, politica, educativa.

 D. A suo parere cosa si sarebbe dovuto fare?

 R. Guardi, mi limito a citare due miei libri, uno che consente di guardare indietro, uno che cerca di guardare avanti. Il primo è intitolato: A noi è andata bene. Famiglia scuola università società in un diario trentennale, Città Aperta Troina (EN) 2008. E’ un diario, che va dal 1961, quando la mia prima figlia aveva tre mesi, a quando ha compiuto 30 anni. In mezzo si cono tutte le altre cose di una vita educativa, sociale e politica vissuta con la famiglia, fino allo sbarco a Roma, per il CNPI. Il secondo è intitolato Cittadinanza e Costituzione. Disciplinarità e trasversalità alla prova della sperimentazione nazionale, Tecnodid, Napoli 2009. C’è dentro tutto quello che da una quarantina d’anni cerco di promuovere, con la prospettiva non tanto di documentare, quanto di capire le possibilità che ci sono oggi, nel contesto normativo complesso e un po’ confuso che caratterizza questi anni. Vi collaborano 27 colleghi, tra cui molti membri di un paio di commissioni ministeriali, che mettono anche a fuoco le “valenze educative in direzione di cittadinanza” che spesso dormono nelle diverse discipline. La disciplinarizzazione di C&C secondo noi non è un sovraccarico, ma una semplificazione: è l’offerta organica di un mappa, che può svolgere il ruolo di catalizzatore delle valenze citate e liberare la scuola dalla estemporaneità di certe “educazioni”, buone in sé, ma da non affidarsi alla sola circolare transeunte del ministro di turno. Non aut aut, ma et et.

 

Grazie, professore

 

 

 

Da SIR (bisettimanale) n. 57 del 2 settembre 2009

SERVIZI

EDUCAZIONE

Unità, libertà e carità
Dai Simposi Rosminiani al Rapporto-proposta del "progetto culturale"


"Riscoprire la centralità della persona per poi rifondare il senso del patto di cittadinanza". Sta in questo il "segreto" dell'educazione delle nuove generazioni, che per Antonio Rosmini è "uno di quei preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto delle estreme sciagure". Se ne è parlato durante il X corso dei Simposi Rosminiani, che si è svolto nei giorni scorsi a Stresa sul tema: "Educare come? Unità dell'educazione, libertà d'insegnamento, carità intellettuale". Al corso, organizzato dal Centro internazionale di Studi Rosminiani con la collaborazione del Servizio Cei per il "progetto culturale", hanno partecipato circa 200 persone. Il SIR ha rivolto alcune domande a Luciano Corradini, docente di pedagogia all'Università "Roma Tre", tra i relatori del convegno. Il 22 settembre, intanto, a Roma, verrà presentato il volume "La sfida educativa. Rapporto-proposta sull'educazione", primo frutto del lavoro del Comitato per il progetto culturale, costituito agli inizi del 2008.

Per Rosmini l'educazione era una vera e propria forza "rigeneratrice" della società. Un'affermazione ancora sorprendentemente attuale e in linea con la scelta pastorale della Chiesa italiana per il prossimo decennio…
"Rosmini era convinto che l'educazione fosse un'occasione per migliorare la specie umana e per riparare alle devastazioni della guerra. Per adempiere a questo compito così delicato e importante, oggi rilanciato con forza anche dalla Chiesa italiana, secondo il filosofo non basta guardare a nuovi indirizzi, occorre un tipo di cultura grazie alla quale la parte migliore della generazione adulta vada a contagiare la parte della società in cui si trovano le energie per il futuro, cioè le nuove generazioni. Educazione, dunque, come generazione, intesa non solo in senso fisico, come procreare, ma come capacità di mettere le persone in grado di esprimere il meglio di sé. In termini educativi, ciò implica la consapevolezza dell'eredità morale, civile, civica, politica, oltre che scientifica e culturale, di un popolo".

Uno dei temi più urgenti, ma nello stesso tempo, più difficili da riscoprire oggi, in un'epoca di saperi sempre più "parcellizzati", è l'unità dell'educazione: come rivalutare questa eredità rosminiana?
"All'insegnante viene consegnata la realizzazione di un patto intergenerazionale, che implica la piena consapevolezza della deontologia professionale, da un lato, e della nostra cultura costituzionale, dall'altro. Tutto ciò, partendo appunto da un'idea profondamente unitaria della persona umana, di cui attraverso l'educazione va garantito il pieno sviluppo tramite un patto sociale responsabile. I primi articoli della nostra Costituzione insistono molto sul tema della dignità dell'uomo, al centro anche della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Solo partendo da queste premesse si possono suscitare uomini nuovi, grazie ad una identità che va riscoperta ad ogni passaggio generazionale. Ci vogliono adulti che consegnino una fiaccola, e mani giovani che si assumano il compito di portarla avanti, perché tutta la staffetta vinca e l'educazione sia vissuta davvero come compito comune di tutta la società".

Come declinare correttamente la libertà d'insegnamento, in un mondo segnato dal pluralismo ma anche alla ricerca della propria identità?
"La libertà d'insegnamento ha come obiettivo il pieno sviluppo della persona, nel rispetto della coscienza morale e civile altrui. Libertà d'insegnamento non vuol dire, dunque, libertà d'insegnare cosa si sa o non si sa, ma significa libertà responsabile, finalizzata alla promozione e al rispetto della persona. Si tratta, in altre parole, del difficile compito di stabilire - di volta in volta - un equilibrio tra insegnare ed educare, a partire dalla consapevolezza che non si dà l'uno senza l'altro. Rosmini diceva che servono pre-condizioni di carattere morale, per insegnare con competenza e rispetto del diverso grado di apprendimento dei ragazzi. In questa prospettiva, è essenziale il filtro pedagogico, che aiuti gli insegnanti a scegliere ciò che serve non solo a costruire un sapere, ma una mentalità che deve esprimersi attraverso operazioni, sentimenti, volizioni. Oggi si insiste molto, in termini pedagogici, sulle motivazioni: ma occorre anche la capacità di discernere quali motivazioni sia opportuno suscitare, e quali no. L'educazione è però una proposta, non un'imposizione: è un'azione compiuta non solo dall'adulto, ma insieme, nella relazione impostata da chi propone e poi sta a vedere cosa succede in chi riceve tale proposta".

La "carità intellettuale": in che modo può diventare un dovere non solo della scuola, ma una responsabilità comune di cui rendere ragione con coraggio alle nuove generazioni?
"La carità intellettuale implica, per Rosmini, la capacità di mettere a disposizione le proprie conquiste interiori e scientifiche con l'atteggiamento platonico del demiurgo, che «buono e senza invidia» guarda alle idee e le mette a dimora nella materia. Vivere la carità intellettuale come compito significa partire dalla comprensione che quello che si è capito può fare il bene di un altro: non, però, con l'atteggiamento di chi pretende di avere la «chiave» di tutto, ma come offerta".

a cura di M.Michela Nicolais

 

 

Corriere della Sera, mercoledì 3 giugno 2015                                           Edizione di Brescia, p.13

HANNO FATTO SCUOLA

Incontro con il pedagogista Luciano Corradini, una vita tra gli studenti e nella Pubblica Istruzione. Sostenitore del dialogo, assicura: «La scuola è scambio»

di Mariella Bombardieri

Luciano Corradini ha un fisico snello, da scalatore di montagne. Nella sua vita ha scalato tante vette, incontrato tante persone ed investito su un’idea di educazione mai ferma,  sempre aperta al nuovo.

Da dove nasce la sua passione per l’educazione?

Da giovane volevo fare il medico perché in casa c’era mio padre molto ammalato. Abitavamo in campagna a Castellazzo. Mia madre era maestra. Ho iniziato ad andare a scuola a quattro anni perché in casa facevo disastri; troppo vivace ed agitato per la ragazza che doveva tenermi. Così mia madre mi chiamò a scuola e mi insegno a scrivere. A sei anni avrei dovuto andare in quarta elementare. Il medico di famiglia che arrivava con la sua balilla era il personaggio più importante soprattutto dava le medicine per mio papà , lo aiutava a stare meglio;quindi io avevo in mente questa figura. In realtà poi mi iscrissi al Corso di Laurea in filosofia; in fondo, mi dissi che essere prete, medico o insegnante più o meno aveva per me lo stesso significato: fondamentalmente erano professioni di servizio in cui ci si mette dal punto di vista degli altri per aiutarli; che sono dotate anche di una un’intrinseca gratificazione perché ti consentono di studiare, imparare come si è fatti, come funziona la propria vita dando una mano agli altri a capire e quindi a migliorare le condizioni di vita. Io però non volevo fare il filosofo ma l’insegnante. E’vero che dopo la laurea feci un colloquio alla Olivetti e mi dissero che ero adatto per fare formazione aziendale e che mi avrebbero chiamato per un lavoro. Però io dopo una visita alla scuola media di Cantù mi appassionai e mi dissi che era che li che volevo restare. Il pomeriggio giocavo con i ragazzi, in classe mi divertivo a leggere l’Iliade, facevamo le sceneggiature, con le lance per il duello.

Quali erano i suoi ideali?

Ricordo un viaggio con alcuni colleghi andando da Reggio Emilia a Milano ad incontrare Padre Rebuzzoni: un gesuita molto in gamba su questione educative a livello internazionale. Avevo 35 anni; andavano da lui per interrogarlo sul corso di aggiornamento che egli aveva prediposto con l’aiuto di Carlo Perucci. Io che ero presidente all’Uciim di Reggio Emilia e volevo organizzare una formazione per insegnanti. Durante questo viaggio verso Milano ricordo di aver detto :”Non mi sento legato ai democristiani, ai cattolici se per legame s’intende la difesa di un gruppo contro un altro gruppo; mi sento solo legato all’umanità del futuro, quella gente critica, libera ed universale che dovrà uscire dalle nostre azioni e dai nostri incontri di oggi.   A me premeva promuovere la formazione di forze nuove. Sentivo che il compito che dovevo assumere forse troppo ambizioso ma inevitabile era portare una generazione di giovani dall’ignoranza alla consapevolezza, dall’integrazione alla criticità, dalla rassegnata pigrizia alla indomabile attività, dalla solitudine all’amicizia, dai blocchi alla comunità articolata ed aperta, dall’individualismo alla collaborazione, dal gregarismo alla leadership e all’iniziativa, dalla simpatia all’amore, dalla discussione alla verità.

Una vocazione dunque

Sentivo che questa era la mia vocazione. Non sapevo se avrei avuto successo e fino a quando avrei avuto questo compito; sapevo solo che dovevo lavorare, che avrei dovuto accettare anche l’amarezza delle delusione; non sapevo come, dove, quando e quanto. Avevo anche delle paure e sentivo di non avere lo stesso amore di Gesù: strillavo per nulla, volevo vincere, fare presto, con il timore di non riuscire a fare tutto quello che sentivo di dover fare. La mia azione e la mia sconfitta erano importanti entrambi.

Una grande importanza viene data ai legami

Io continuo a ricevere delle lettere di ragazzi ex studenti che mi commuovono. Ad esempio quella di uno studente che mi racconta:”Sono un anonimo suo scolaro. Sul pulman e in classe si faceva il vuoto intorno a me e ciò era dovuto al puzzo di stalla dove studiavo perché era l’unico posto caldo della cascina. Non mi sono distinto come altri compagni… io studiavo solo per i sacrifici dei miei; ero piuttosto gracilino e non adatto al lavoro nei campi e così mi hanno mandato a scuola. A me non piaceva niente. Ma dalla mia triste ed anonima esperienza di studente è emersa la sua figura di insegnante; le sue lezioni era terapeutiche per il mio animo smarrito. Mi sono sempre interrogato come potessero volare nell’aria di una scuola tecnica concetti di vita e valori espressi con tale calore e convincimento. E’ stato affascinante. Ed è il ricordo più bello che ho dei miei anni scolastici. Quando con mia moglie, mia figlia e mio nipote parlo della scuola vado a riprendermi un quadernetto molto datato nel quale annotavo quei concetti di vita che da lei sentivo per la prima volta e con tanto calore. Desidero ringraziarla per ciò che mi ha trasmesso del vivere, dell’emozionarsi, dell’interrogarsi”. Questa lettera vale per me come una medaglia al valore civile. Ciò che resta è sapere di essere stato guida per la vita di qualcuno.

Quali erano i suoi sogni?

Avevo il sogno dell’unità: far si che l’associazione dei docenti, quella degli studenti e quella dei genitori collaborassero. Inoltre pensavo che in base al Concilio queste categorie dovessero valorizzare il loro essere laici e la loro professione. L’altro sogno era la città educativa. La Costituzione ed il Concilio sono state le due coordinate fondamentali che ho cercato di seguire in vista di una possibile città educativa. Quando a Reggio nacque un gruppo di giovani di Comunione e Liberazione pur avendo un’idea diversa cercai comunque un’intesa con loro. Sentivo che era importante fare qualcosa insieme come cattolici per la collaborazione ecumenica. Ma vi era il sogno anche di un’unità con i laici comunisti. Nel corso del tempo mi sono accorto che non c’era discorso che causasse più divisione del tema dell’unità, perché ognuno voleva stare per conto suo. In fondo il sogno era poter vivere l’amicizia politica di cui parlava Aristotele e motivata dal Vangelo senza rinchiudersi in una Comunità particolare ma avendo una forza espansiva che permette a tutti di comunicare.

Cosa sente di aver realizzato di importante?

La cosa più importante è quella familiare; aver incontrato mia moglie, compagna di scuola, di vita. Passando dall’amicizia affettuosa al matrimonio a 24 anni. Sono stati trent’anni di famiglia, scuola, università, società.

Qual è il suo sguardo sull’educazione oggi?

L’educazione oggi è una cosa impossibile e necessaria. Difficile da precisare perché ha a che fare con la libertà e con silenzi, con interventi a volte felici ed a volte non felici. Capita in momenti imprevedibili di trovare uno spunto che apra la mente ad un certo problema scientifico, teologico, tecnico, psicologico, un conflitto, un blocco. Ci sono momenti in cui si aprono le coscienze, il dialogo, l’amicizia e vi sono momenti nei quali invece ci sono chiusure, ognuno va per conto suo, non ci si riconosce più. Questo a volte mi fa soffrire. Quando colgo l’ingratitudine o l’allontanamento. Ma vi sono anche momenti belli in cui si recuperano le amicizie attraverso la vita personale, familiare, amicale, istituzionale

Quale messaggio darebbe agli insegnanti?

Non rinunciare alla vita anche se non la si capisce; anche se ci si sente inadeguati; avere fiducia negli altri anche se deludono. E’ una lotta contro se stessi per non restare prigionieri delle proprie aspettative, della propria rappresentazione dell’altro e per riaprire continuamente i giochi. Non siamo mai perduti. Anche se non si vedono i risultati qualcosa c’è e bisogna puntare a questo. Ricordo una frase del Cardinal Bevilacqua:”Le idee valgono per quello che costano non per quello che rendono”.   Ancora oggi sento forte l’importanza dell’educazione. Nel corso della nostra vita non dobbiamo mai rinunciare all’incontro; l’educazione a scuola certamente è un’attività professionale ma è anche socializzazione, scambio. La scuola dev’essere accogliente, capace di dire. Le persone possono cambiare; serve dare loro del tempo; l’educazione non avviene nell’istante. Quando non arriva nulla chi ti dice che certe parole germoglino poi con il tempo. A volte servono molti anni. Anche con se stessi. Educare è anche educarsi.

Come può un insegnante lavorare su se stesso?

Migliorando la propria autostima, ripensando alla propria vicenda di studente, avendo la virtù del coraggio. L’insegnante è colui che si mette accanto, che si fa carico delle paure dell’allievo. Anche il coraggio uno se lo deve dare in nome dell’etica professionale. Quando l’insegnante soffre deve ascoltare il proprio disagio, accettando di avere dei limiti. Anche nelle situazioni di conflitto non ripetere gli stessi schemi, uscire dal proprio ruolo.

Ha ancora un sogno nel cassetto?

 Il sogno continua e rimane tale ed è quello dell’unificazione tra l’Uciim e l’Aimc che sono entrambi associazioni di insegnanti cattolici: hanno la stessa visione della professione come animazione delle realtà terrene, come competenza che si manifesta nell’attività professionale quindi è la partecipazione all’opera creativa di Dio da laici. Non si tratta di evangelizzare gli studenti, ma di fare bene, da docenti cristiani, ma non in quanto cristiani, il mestiere di insegnante e di preside, di studente, di genitore che si rende conto dei valori di cui vuol essere testimone, ma anche dei propri limiti.